sabato 22 marzo 2008

Paul Auster






Un lunedì.
La giornata è cominciata battagliera; potrei dire che non ci ho dormito la notte, se non fosse che invece, alla fine, ho dormito tanto, con intermezzi di risveglio non voluto.
E così, ho iniziato col telefonare all’amministratore del palazzo per dire che da tempo nessuno pulisce le scale, poi sono scesa armata di cacciavite per mettere la targhetta col mio nome nel (e non sul) citofono, infine ho chiamato Conforama per chiedere come mai il forno a microonde non mi è stato ancora recapitato. A mezzogiorno, è stata la prima volta, dopo tanti tantissimi anni, di lavanderia self-service. E già, poiché non ho neanche una lavatrice, in casa. Nel frattempo, mentre nelle macchine i panni da sporchi diventavano puliti, sono andata alla FNAC (una libreria che non smetterò mai di amare) ad acquistare un videogioco per quando verrà Romain e la trilogia newyorkese di Paul Auster.
Lo amo, Auster. Scrive come (e quel che) vorrei scrivere io. E come mai riuscirò (d’altronde, se anche vi riuscissi, sarei un clone. E allora, cui prodest?).
C’è un passaggio che per me è stato un’illuminazione; qualcosa che descrive esattamente come mi senta in questo periodo. Lo trascrivo qui (conta però che traduco dal francese che traduce dall’americano):
“Ma quel che amava sopra ogni cosa era camminare. Quasi ogni giorno, che piovesse o tirasse vento, facesse caldo o freddo, [Quinn] lasciava il suo appartamento per deambulare nella città – senza per davvero sapere dove andava, spostandosi semplicemente nella direzione dove lo conducevano le gambe. […]
[Questo suo errare] gli dava sempre la sensazione d’essersi perduto. Non soltanto perdutosi nella città, ma anche in lui. Ogni volta che usciva a camminare aveva l’impressione di lasciare se stesso e, abbandonandosi al movimento delle strade, di ridursi ad essere nient’altro che uno sguardo. Così, poteva sfuggire all’obbligo di pensare, la qual cosa, più d’ogni altra, gli portava un po’ di pace, un salutare vuoto interiore. Intorno a sé, davanti e fuori di sé, c’era tutto un mondo che cambiava ad una tale velocità che a Quinn era impossibile attardarsi a lungo su alcunché. Il movimento era l’essenza delle cose: porre un piede davanti all’altro e permettersi di seguire la deriva del proprio corpo. Vagando senza meta, tutti i luoghi diventavano uguali e non era più importante trovarsi qui o lì. Le passeggiate migliori erano quelle in cui poteva sentire che non stava in nessun luogo. E in fondo era tutto quel che aveva chiesto alle cose: non essere in nessun luogo.” (da: City of glass)
Capisci, ora? In realtà, dovrei fare una rettifica a quanto sopra espresso. Se è vero che da sempre non ho un posto mio (nula mjesto), è pur vero che in qualunque luogo mi trovi, se ci sono due eventi, piccoli ma coincidenti, allora ogni luogo è casa mia.
Mi riferisco al canto degli uccelli e al suono delle campane. Quando, assai raramente, mi capita di sentire le due melodie avvicendarsi nell’aria, ecco allora, in quel preciso attimo che durerà tutt’al più uno o due minuti, sono pervasa da un calore dentro che s’irradia verso l’esterno e credo somigli a qualcosa come alla felicità. In quel momento, ovunque mi trovi, non mi sento straniera.

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