Quando ancora non avevo una casa mia, era qui che la mattina facevo colazione: 3,50 euro per un succo d’arancia, un cappuccino e una mezza baguette piena di burro e marmellata di fragole.
La foto è bagnata dal sole, ma io, il Nucléon, l’ho visto sempre sotto la pioggia e comunque col maltempo. Appena entri c’è la terrasse, cioè ci sono i tavoli grandi e piccoli, tondi (i guéridons), quadrati o rettangolari, per sedersi, poi entri nel bar propriamente detto, c’è il bancone per chi vuole prendersi una birra e scappar via (dopo aver scambiato qualche parola col barista) e al piano superiore ancora una stanza piena di tavolini per pranzare (e non solo).
Lasciando da parte i sentimenti che mi abitavano all’epoca, l’unico passatempo tra un caffè e l’altro era osservare gli altri. Confesso: gli studenti non erano interessanti.
Ma c’era un uomo che attirava tutta la mia attenzione. Un uomo strano.
Età indefinita: 50? 60? Magro, abbastanza alto, capelli ondulati e grigi, barba sale e pepe. Zuccotto (o qualcosa di simile) sulla testa, fino a coprire la fronte. Abbigliamento curato, ma un sospetto di “perduto” c’era. Insomma, avevo davanti un barbone o un intellettuale?
Gentile, a modo, senza tracce di amore dissennato per la bottiglia, fumo sì, quello fatto da sé, con tabacco e cartine, sempre un libro o un quadernetto con sé che estraeva da una saccoccia di tela, aria pensierosa e assorta, unghie nette, mani – debbo ripetermi – da intellettuale. Pulito era pulito, ma i suoi abiti rivelavano un parto risalente ad almeno vent’anni prima. Un mistero.
Sapessi quante volte avrei voluto rivolgergli la parola. Ma non l’ho mai fatto per paura che potesse fraintendere. Dimenticavo: un volto antico, affilato, un volto da ulisside.
Lo incontravo più volte durante la giornata, per le vie – poche, invero – del centro. Mi son chiesta se avessimo gli stessi orari e abitassimo nello stesso quartiere: ormai avevo optato per il professore di filosofia.
Fino ad una sera.
Al solito, pioveva. Erano le sette, rientravo dalla facoltà, l’ombrello per fortuna l’avevo. Decido di non fare la solita rue Saint-Pierre, ma di svoltare per la rue Froide (e fredda lo è per davvero, il sole non riesce proprio ad incunearsi in quella stradina stretta), costeggiando una chiesa bellissima e chissà perché sempre chiusa.
Lo vedo. Anzi, prima di lui vedo la mano stesa. Lo riconosco e avverto una sensazione sgradevole, mista, di delusione e compassione. Chiede l’elemosina.
Abbasso l’ombrello sulla mia testa: non voglio che lui veda che l’ho visto. È come se volessi preservare la sua dignità; non è vigliaccheria, la mia.
Da quel giorno non l’ho più incontrato.
Lo cerco con gli occhi, per le vie, ma è scomparso.
Chissà dov’è ora il mio mancato professore di filosofia.
2 commenti:
Professoressa, vedo bene di quell'uomo parla. Anche io lo incontrato per strada a Caen, é molto cortese, e molto gentile, mi rinvia sempre il mio saluto. mi sembra di averlo visto con un strumento di musica, forse lo é musicista, o filosofo?...
é vero che é misterioso é che da voglia di conoscerlo.
se no la storia racconta che la Rue Froide si chiama cosi perché Mathilde moglie di Guillaume le Conquerant, quando é passata per questa strada ha detto "oh quelle froide rue" e cosi é nato il nome della strada.
barbara Gintz
Barbara, che sorpresa! Scopro solo oggi la sua risposta.
Per chi legge ed è estraneo all'università di Caen, Barbara Gintz è una studentessa molto in gamba...
Posta un commento