domenica 27 aprile 2008

Ti racconto un quadro: Parigi attraverso la finestra di Chagall


Sogno n. 5


A mezzanotte, in cucina, amo appoggiare volto e mani ai riquadri trasparenti dell’unica finestra. Perché a mezzanotte s’accende tutta. D’oro, diventa la torre di ferro, quella che gli stranieri del mio paese, storpiandola, chiamano E-IFFEL. È l’unico momento in cui amerei bere un tè, brindando al miracolo che si ripete: mezzanotte meno un minuto, niente. Mezzanotte in punto: d’oro, brilluccica come gonna con le paillettes a festa, come scoppio di felicità in una città ove l’unica cosa che manca è proprio quello che tutti vi cercano: la felicità.
La regina di Parigi è la solitudine e stanotte è ancora più solitaria, la neve viene giù anch’essa stridente, come nota di festa a un funerale. Ce ne stiamo qui, in un monolocale a rivendicare la nostra conquistata autonomia di uomini e donne responsabili che si lavano e stirano i calzini da soli, che mangiano puntualmente nel bistrot pulito e preciso eletto a nostra personale sala da pranzo. Ci concentriamo sul filetto al pepe verde stupendoci se quel santo colore ci lenisce un poco il crampo che ingoia tutto.
Ieri ho fatto un sogno. E in mezzo, dappertutto, volavano i colori di Chagall.
Noi tre, noi tre insieme, tornavamo nella Honfleur amata da Baudelaire e da Monet, luogo nativo di Erik Satie. Nei week-end presa d’assalto dai parigini, non provavamo neanche a cercare un albergo, sistemandoci in una stanza affittata in riva a quel mare che di giorno è sempre lontano... Disfatte le valigie, ce ne andavamo a zonzo per Deauville, Trouville, arrivando fino a Cabourg. Passeggiata ventosa sul lungomare, poi nella città irrimediabilmente turistica, mentre Xavier andava a spendere i suoi bravi 200 euro alle slot-machines. E comunque a Deauville, Trouville e Cabourg eravamo andati per dire addio anche a quei luoghi.
Serata di nuovo a Honfleur in un locale consigliato dalle guide, in cui Xavier gustava ancora una volta le sue ostriche; io altro (e quest’ “altro” non mi piaceva per niente). François voleva a tutti i costi prendere un bagno notturno nella Manica, nonostante i pochi gradi dell’aria circostante e i molti meno dell’acqua. Conoscendolo, gli suggerivo di rimandare all’indomani, ben sapendo che l’incostanza gliel’avrebbe impedito. E infatti, l’indomani, di buon’ora, proponevo a loro due di arrivare alle falaises gemelle delle bianche scogliere di Dover, a Etretat, la suggestiva, verdesmeraldo Etretat, che finisce in punta alla scogliera con sotto 85 metri a separarti dall’acqua, dal tuffo, l’oblio definitivo. Ovunque vento, sole, freddo e caldo, fiumiciattolo di persone che risale ripidi scalini che conducono su. Ma più bello ancora era il viaggio in auto per arrivare da Honfleur a Etretat, quando lo sguardo corre fuori dal finestrino e scorre dentro di te, portandoti via. Via da te.
E sul ponte di Normandia, mi scoppiava forte il cuore, su quel giovane ponte che attraversa l’estuario immenso della Senna e poi il canale, natura naturale e natura artificiale, elica che s’arrampica su, più su, fin dentro le nuvole. L’autostrada per il cielo, ponte che curva e sale, sale e poi scende, scende giù in picchiata, per resistere alla violenza di un tornado.
Attraversavamo poi Le Havre. Chissà com’era questa città prima che la radessero al suolo, nel ’44. Ricostruita in quattro e quattr’otto: blocchi prefabbricati di cemento armato. Uno choc, ma negli occhi c’era il sole, il mare e giardini ordinati dappertutto. Poi ancora prati lentigginosi di margherite, prati normanni tappezzati di mucche, cielo che confina con il verde brillante e meli in fiore. Foto, tante inutili foto. Nel sogno approdavamo infine a Valmont, cittadina poverissima, di quelle il cui unico sfogo è la brocante, fiera di poveri, qua e là sui banchetti scarpette smesse di bimbo per 4 euro. Si finiva in una brasserie, ch’era già tardo pomeriggio con davanti agli occhi tre barchette di salsicce patate fritte e un bicchiere di birra. E Chagall spariva, Chagall, dopo un turbinio di colori verdi blu e viola.
C’era la neve, all’improvviso, la neve sul mare. La neve su Parigi. Parigi sul mare.

Una riga nel cielo si allunga
avvicina la distanza del viaggio
punisco il mio lato spoglio
con il freddo, neve impervia
neve che sale
sbadiglia
e affranca la vista
fiochi spiragli
quando tornerò
rimango a spargugliare
foglie per terra per aria, incespico
e non racimolo
dimmi quanti piedi mancano
all’orlo, e poi prometto
non volerò giù.

Anzi, lo giuro.
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[La poesia Una riga nel cielo si allunga è di Paola Turroni]

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