L'amore è il mio nei confronti dell'albero dei cachi (o kaki, in francese corretto: plaquemine). Fin da quando ero bambina, la visione di questi alberelli non molto robusti, spogli di foglie ma addobbati come alberi di natale, con le palle tutte arancioni, mi ha sempre allargato il cuore e formato una parola in caratteri stampatello dentro di me: NOVEMBRE.
Ho sempre desiderato avere un albero di cachi in casa. Ma in assenza di giardino o giardinetto, è rimasto un pio desiderio.
A dire il vero, quand'ero piccola, malgrado il mio amore per l'albero, il frutto mi deludeva alquanto: o era quasi sfranto (espressione dialettale che deriva da frangere, spremere/schiacciare e che sta a indicare qualcosa che si rompe come se fosse schiacciato, generalmente rivolto a frutta) oppure allappava (altra espressione esclusivamente riservata ai cachi, clicca qui). Ma anche tutte e due le cose.
Oggi invece i cachi sono tosti, non allappano più, hanno un sapore vanigliato e discreto e non si rompono. Mi piacciono molto quelli di provenienza israeliana, ma son troppo cari.
Senza semi, in Francia li chiamano i kaki del Giappone. In Croazia, Japanska Jabuka (mela del Giappone).Saranno pure imbastarditi, ma ora ne mangio almeno uno al giorno.