Tutta colpa di Bartleboom.
Non mi ero mai sognata di partecipare a suddetto premio. Intanto perché non rientro nella "scrittura calviniana", poi perché conoscevo alla lontana lo stile vincente dei precedenti premiati e sapevo di non scrivere in-quella-maniera-lì.
Ma la vocina che si autocompiace a volte urla e così scettica al massimo ho preparato il pacchetto con alcuni miei raccontini. E ho spedito il tutto.
Il 7 maggio ho ricevuto per via mail la risposta.
Che non ho osato aprire prima di adesso.
Un po' per autoludibrio, un po' per spirito di contestazione, pubblico qui il commento del Comitato di Lettura. Anche per dire in che cosa non sono d'accordo.
Ecco di seguito il giudizio (lo leggo anch'io ora con voi per la prima volta - qualche anticipazione me l'ha data il coniuge in sintesi - , ché non ho piacere a affondare la lama nelle viscere):
Certe umane derive è una raccolta di testi colti, raffinati ma divaganti, specialmente i primi, che sono poi gli ultimi scritti in ordine temporale.
L'autrice in alcuni testi ricostruisce brevi momenti della sua vita, parlando si sé, di chi le sta attorno, di incontri con letterati e amici, di vacanze.
Più che racconti questi testi sembrano divagazioni giornalistiche a metà tra il privato e la cronaca letteraria; pur avendo qualche momento narrativamente efficace, risultano testi di completamento di una attività letteraria, quasi delle postille.
Gli ultimi quattro, che hanno un più marcato carattere di racconti, paiono tentare modelli narrativi diversi.
La madre di mio zio è la ricostruzione di un ambiente, di personaggi della propria storia familiare in un momento cruciale durante l'ultima guerra mondiale: il figlio maggiore è partito prima come soldato, e poi è stato deportato in un lager. L'autrice, dopo una parte iniziale forse un po' superflua, fa un efficace ritratto della madre attraverso la descrizione dei suoi gesti trattenuti e delle sue emozioni.
Il racconto successivo [Fuochi d'artificio, n.d.r.] è il ritratto di un finanziatore di Manet e degli impressionisti.
Scegliendo questa ottica particolare l'autrice ricostruisce un ambiente, delinea i personaggi e lo fa con una certa efficacia.
In Calzettoni bianchi, scarponcini blu ritornano temi autobiografici.
Completamente diversa è invece la tecnica narrativa scelta per Fiocco nero.
Qui l'autrice usa una struttura narrativa anche molto usata dal cinema contemporaneo: l'intrecciarsi di storie diverse attorno ad un avvenimento preciso, senza che queste vengano mai effettivamente in contatto, o che i personaggi si conoscano.
La scrittura è colta, molto raffinata, e merita quindi attenzione, suggeriamo però all'autrice di puntare su una maggiore omogeneità dei testi.
Il Comitato di Lettura
L'autrice in alcuni testi ricostruisce brevi momenti della sua vita, parlando si sé, di chi le sta attorno, di incontri con letterati e amici, di vacanze.
Più che racconti questi testi sembrano divagazioni giornalistiche a metà tra il privato e la cronaca letteraria; pur avendo qualche momento narrativamente efficace, risultano testi di completamento di una attività letteraria, quasi delle postille.
Gli ultimi quattro, che hanno un più marcato carattere di racconti, paiono tentare modelli narrativi diversi.
La madre di mio zio è la ricostruzione di un ambiente, di personaggi della propria storia familiare in un momento cruciale durante l'ultima guerra mondiale: il figlio maggiore è partito prima come soldato, e poi è stato deportato in un lager. L'autrice, dopo una parte iniziale forse un po' superflua, fa un efficace ritratto della madre attraverso la descrizione dei suoi gesti trattenuti e delle sue emozioni.
Il racconto successivo [Fuochi d'artificio, n.d.r.] è il ritratto di un finanziatore di Manet e degli impressionisti.
Scegliendo questa ottica particolare l'autrice ricostruisce un ambiente, delinea i personaggi e lo fa con una certa efficacia.
In Calzettoni bianchi, scarponcini blu ritornano temi autobiografici.
Completamente diversa è invece la tecnica narrativa scelta per Fiocco nero.
Qui l'autrice usa una struttura narrativa anche molto usata dal cinema contemporaneo: l'intrecciarsi di storie diverse attorno ad un avvenimento preciso, senza che queste vengano mai effettivamente in contatto, o che i personaggi si conoscano.
La scrittura è colta, molto raffinata, e merita quindi attenzione, suggeriamo però all'autrice di puntare su una maggiore omogeneità dei testi.
Il Comitato di Lettura
Ho letto tutto. Pensavo peggio. Non ho nulla da contestare. Anzi, ringrazio per l'attenzione il Comitato.
Vorrei però entrare nello specifico (lo faccio per me. Se vi annoiate, uscite da questo post, ché ora comincio a ingarbugliarmi un discorso su quel che penso siano e debbano essere testi di questo genere).
Intanto, qualche precisazione:
Non c'è nessun finanziatore di Manet. C'è un pittore che amo, Frédéric Bazille, che semmai aiutò Oscar-Claude Monet. La *madre* non è la madre, bensì la *nonna* (madre di mio zio). E il titolo di uno dei "racconti" è *Calzerotti* (bianchi) e non *Calzettoni*.
Vorrei però entrare nello specifico (lo faccio per me. Se vi annoiate, uscite da questo post, ché ora comincio a ingarbugliarmi un discorso su quel che penso siano e debbano essere testi di questo genere).
Intanto, qualche precisazione:
Non c'è nessun finanziatore di Manet. C'è un pittore che amo, Frédéric Bazille, che semmai aiutò Oscar-Claude Monet. La *madre* non è la madre, bensì la *nonna* (madre di mio zio). E il titolo di uno dei "racconti" è *Calzerotti* (bianchi) e non *Calzettoni*.
In nessuno dei testi menzionati, a parte in minima parte quello che riguarda mio zio, c'è autobiografia.
Io l'autobiografia la faccio quando scrivo i saggi o un articolo letterario, figurati un po'.
Ipotesi: nel comitato di lettura ci sono i nègres, giovani ragazzi che debbono farsi le ossa e che però di metaletteratura, di biografia e di autobiografie fittizie san poco o nulla.
C'è ancora qualcuno nel mondo che pensa che basti mettere un "Io", oppure dare i propri tratti somatici a un personaggio, per fare autobiografia, per raccontare i fatti propri?
Sì, evidentemente.
In realtà, son tutti pretesti. Uso quel che è a disposizione per coprire - oserei dire per rivestire - l'anima, l'interno, l'impalcatura del testo (che è quel che più mi interessa). Quel che conta è in quel che non è scritto, è nell'attesa, e la storia prende fine quando l'assenza si fa presenza (grazie, Todorov).
Si è capito che sono raffinata. Si è capito che scrivo in maniera colta.
Se c'è una cosa che non faccio quando scrivo qualcosa che abbia una qualche pretesa letteraria è di scrivere in maniera colta e/o raffinata. Scrivo in maniera pressoché banale (corretta, ma piatta). Abolisco l'aggettivo qualificativo, tanto per dire.
Ascolto canzonette pop, quando scrivo.
Ho in mente Silvio D'arzo, quando scrivo. Ari-figurati.
Stile giornalistico, postille. Insomma chi sono, una specie di Arbasino o di Eco? Mettiamoci d'accordo. Sinteticamente, la mia scrittura sarebbe - se ho ben capito - definibile così: raffinata superficiale e sbrigativa, snob concentrata su di sé. Oddio, qualcosa c'è o ci sarà di tutto questo.
Ma continuando nel "io me la canto e io me la suono", ci terrei a dire che io non scrivo racconti, bensì novelle.
E se si fa la giusta differenza tra le due cose (non vi preoccupate, non vi ammorberò con codeste [fatemi fare la raffinata, please] sfumature), si capisce come e perché le storie sono flash, non hanno inizio e non hanno fine, solo il troncone centrale. Ma che troncone.
Insomma: sono novelle, non racconti.
Io l'autobiografia la faccio quando scrivo i saggi o un articolo letterario, figurati un po'.
Ipotesi: nel comitato di lettura ci sono i nègres, giovani ragazzi che debbono farsi le ossa e che però di metaletteratura, di biografia e di autobiografie fittizie san poco o nulla.
C'è ancora qualcuno nel mondo che pensa che basti mettere un "Io", oppure dare i propri tratti somatici a un personaggio, per fare autobiografia, per raccontare i fatti propri?
Sì, evidentemente.
In realtà, son tutti pretesti. Uso quel che è a disposizione per coprire - oserei dire per rivestire - l'anima, l'interno, l'impalcatura del testo (che è quel che più mi interessa). Quel che conta è in quel che non è scritto, è nell'attesa, e la storia prende fine quando l'assenza si fa presenza (grazie, Todorov).
Si è capito che sono raffinata. Si è capito che scrivo in maniera colta.
Se c'è una cosa che non faccio quando scrivo qualcosa che abbia una qualche pretesa letteraria è di scrivere in maniera colta e/o raffinata. Scrivo in maniera pressoché banale (corretta, ma piatta). Abolisco l'aggettivo qualificativo, tanto per dire.
Ascolto canzonette pop, quando scrivo.
Ho in mente Silvio D'arzo, quando scrivo. Ari-figurati.
Stile giornalistico, postille. Insomma chi sono, una specie di Arbasino o di Eco? Mettiamoci d'accordo. Sinteticamente, la mia scrittura sarebbe - se ho ben capito - definibile così: raffinata superficiale e sbrigativa, snob concentrata su di sé. Oddio, qualcosa c'è o ci sarà di tutto questo.
Ma continuando nel "io me la canto e io me la suono", ci terrei a dire che io non scrivo racconti, bensì novelle.
E se si fa la giusta differenza tra le due cose (non vi preoccupate, non vi ammorberò con codeste [fatemi fare la raffinata, please] sfumature), si capisce come e perché le storie sono flash, non hanno inizio e non hanno fine, solo il troncone centrale. Ma che troncone.
Insomma: sono novelle, non racconti.
(Il coniuge mi ha chiesto: perché hai messo una foto tua, qui? Risposta mia: perché io" ci metto la faccia")
Infine: omogeneità dei testi in una raccolta?E perché mai? Posso dirlo con tutta la mia raffinata cultura? Sììììì?!?!?
Beh, l'omogeneità - nella vita come nella scrittura - ... Sai che palle.
A me piace l'eterogeneità. Sempre.
Ammetto di essere il colpevole per averti spinto a tanto!! :-) E se arriva anche a me la loro recensione, non mi sogno neanche di aprirla.. :-)
RispondiEliminaMa, devo dire che, avendo il pregio di conoscere l'oggetto della recensione (cerco di innalzarmi verso un tono colto e raffinato) le tue precisazioni sono giustissime. E poi 'sta storia dell'autobiografismo, e che palle!!
Detto fra noi, i tuo tronconi disomogenei a me piacciono tantissimo...
Va da sè che adesso siamo tutti curiosi di leggere le tue fatiche letterarie.
RispondiEliminaPubblicarle sul blog, no?!
No, Clode. Non demordo, voglio pubblicarle per davvero. E se pubblichi su internet, poi l'editore cartaceo NON ti vuole più.
RispondiEliminaGrazie della fiducia. Clode, hai pensato che magari hanno ragione loro?
Bart! Ma come? Facciamo così: tu non li apri, i giudizi; li inoltri direttamente a me (come io ho inoltrato direttamente al coniuge).
:DDD
Ecco si, facciamo così. Io se mi arriva qualcosa, te lo inoltro... :-)
RispondiEliminaHai ragione, se vuoi pubblicarle allora il blog no aiuta!
RispondiEliminaPossono anche aver ragione, rimane a me la curiosità di decidere da lettrice! Bisogna stare attenti con la critica, è giusto che tu scrittrice la prenda in considerazione, ma spesso il pubblico ha dato ragione agli artisti prima della critica e rivelando poi di essere nel giusto. Altrettante volte non è andata così bene. Purtroppo (o perfortuna) le lettere non sono materia di scienza e quindi per fortuna la verità in tasca non ce l'ha nessuno! (ecco perchè ho scelto una facoltà umanistica!!)
:DDDD
RispondiEliminaJ. questo post è bellissimo continua così sei veramente veramente determinata non ti lasciare influenzare dal primo cretino....credici!
RispondiEliminaParte prima: estratti integrali del giudizio del Comitato di Lettura della XXVI edizione del premio Calvino sul mio lavoro.
RispondiElimina1. Il romanzo di Fidora è esplicitamente autobiografico.
2. Si tratta di un’opera scorrevole, piuttosto ben scritta e di piacevole lettura che presenta però due limiti non trascurabili.
3. Primo limite: l’autobiografia ambientata tra dopoguerra e anni di piombo è un genere decisamente abusato, all’interno del quale è una fatica improba riuscire a trovare elementi o dettagli che non siano già stati raccontati.
4. il Secondo limite: è invece più propriamente legato alle scelte narrative e stilistiche dell’autore e riguarda il suo desiderio didattico: Fidora infatti non si limita a raccontare, vuole anche spiegare e motivare.
5. l’espressione che conclude il capitoletto 1.4.1, “La scenografia è venuta giù da sola” per indicare gli effetti del 1968, è bella ed efficace, mentre la spiegazione del capitoletto seguente è inutile e rovina anzi il fascino dell’immediatezza.
6. Interessanti e spesso ben riusciti sono i ritratti degli amici, ma restano per così dire a mezz’aria senza trovare un vero sbocco narrativo. Forse l’autore dovrebbe attingere ai suoi ricordi per creare una narrazione compiuta che mescoli realtà e fantasia senza perdersi in digressioni esplicative.
(se pubblicato, a seguire, seconda parte: amplificazione e parafrasi del giudizio, terza parte: critica del giudizio, quarta parte: conclusioni)
Gian Marco: tutte queste cose ti han detto?
RispondiEliminaP.S. Gian Marco vedo che mi hai scritto il 16 agosto mentre la mia vita cambiava strada di nuovo. Ho letto solo ora che c'era il tuo commento in attesa di moderazione; google non mi ha avvisata prima. Scusami.
RispondiEliminaGentile Artemide Diana, sono io a scusarmi per l'invasione.
RispondiEliminaSì, mi hanno detto tutto ciò e sembra che ci sia un filo che lega i giudizi del comitato sui nostri lavori. Ma non voglio anticipare le conclusioni, quindi ecco la seconda parte, che dovrebbe far ridere:
Amplificazione e parafrasi del giudizio
1. Questo dato incontrovertibile mette il Comitato di Lettura al sicuro dal rischio di dover affrontare penosi dubbi circa la possibilità che il predetto romanzo debba essere valutato solo in quanto tale (è noto, al contrario, che per valutare qualsiasi opera artistica è necessario preventivamente classificarla secondo una precisa tassonomia, se no chi si raccapezza).
2. Il Comitato di Lettura avrebbe usato con piacere il termine “colpa” invece di “limite”, ma alla fine ha prevalso una certa decenza laica. La colpa, in ogni caso, sarebbe meritatamente derivata da un duplice peccato di superbia e di oltraggio alle regole.
3. Il Comitato di Lettura si riserva il diritto di tenere segreto l’elenco dei generi letterari non abusati nel cui ambito gli autori astuti dovrebbero operare e ciò anche al fine di evitare a sé stesso fatiche eccessive, strapazzi e mal di testa. Non è difficile immaginare quante volte sia già capitato al povero Comitato di leggere pagine del tutto analoghe, scritte in uno stile del tutto analogo, con immagini, concetti e personaggi del tutto analoghi, da tanti analoghi similfidora. Basta, non se ne può più.
(mi fermo al punto 3 per non superare il limite di caratteri. Continua...)
4. Trattasi in effetti di pretesa francamente inaudita: chiara indicazione di quanto poco l’autore sia a conoscenza delle regole della buona narrativa. Qui c’è poco da scherzare. L’esempio che segue lo dimostra.
RispondiElimina5. Un vero peccato, una così bella espressione rovinata da un successivo capitoletto non solo inutile ma addirittura dannoso. Leggiamolo, dunque:
“La scenografia è venuta giù da sola, ma un pezzo alla volta e senza alcun clamore. E non per tutti e in modo tale che nessuno lì per lì ne avesse la coscienza. Proprio questa è stata in fondo la fortuna, la combinazione particolare che ci ha restituito una terra degli uomini nella quale nessuna gerarchia si sarebbe più sostituita a un’altra. E nessuna scenografia, più bella o più brutta, ci avrebbe fatto dimenticare la nostalgia di un futuro.
Ma che cosa si vuole intendere qui con la parola scenografia, un termine che fa pensare alla finzione teatrale, all’allestimento di uno spazio effimero?
Ora a crollare silenziosamente, a svanire, a dissolversi senza fatica apparente c’erano intere categorie culturali e politiche, ruoli e funzioni sociali e familiari, rapporti tra le parole e le cose. La fine dello spettacolo separato di noi stessi in quanto studenti all’interno del sistema scolastico e poi in rapida successione – come onde concentriche che si allargano sull’acqua – in quanto figli, cittadini, lavoratori, uomini, anime.
Scuola, famiglia, sistema politico, sistema economico, cultura, religione, per alcuni tutto questo era stato giudicato insoddisfacente. Non solo la scena cadeva a pezzi, ma l’intero teatro doveva essere smobilitato. E il pubblico congedato.”
Visto? Che cosa si era detto? Povera metafora, così bella ed efficace, fatta a pezzi e smontata senza riguardo. E in cambio di cosa poi? “Terra degli uomini”, “nostalgia di un futuro”, “rapporti tra le parole e le cose”, “spettacolo separato di noi stessi”, “onde concentriche”, l’intero teatro che deve essere smobilitato e il pubblico congedato? Maledetta sia la didattica che ci ruba la poesia della vita.
6. Il Comitato di Lettura non può legittimamente accettare che i personaggi dell’opera se ne stiano sospesi nell’aere a volteggiare come ectoplasmi e non diano vita invece a quei belli intrecci narrativi che tanto ci fanno sospirare.
E infine, l’autore se lo calchi bene in zucca, la narrazione compiuta ha le sue leggi, ci dispiace non si scappa, si fa così: si attinge alla memoria e poi si fa un bel cocktail dove si mescola realtà e fantasia stando bene attenti a evitare qualsiasi digressione, riflessione, analisi, critica, provocazione, sovversione, sperimentazione, metadiscorso (che Dio ce ne scampi e liberi).
Salto alle conclusioni e risparmio a chi legge la preannunciata "critica del giudizio", troppo facile e inevitabilmente astiosa nei confronti di cotanto Comitato di lettura.
RispondiEliminaI nègres non sono una categoria a parte. Fanno parte a pieno titolo di quella categoria di piccoli agenti, per lo più inconsapevoli, al servizio del sistema gerarchico della separazione della vita il cui compito consiste nel tentativo di animare il moribondo mercato del consumo culturale.
Ciò che personalmente mi risulta odioso è il disprezzo che questi agenti dimostrano verso il pubblico, in questo caso i lettori. Lo stesso disprezzo che i manipolatori della pubblicità mostrano a ogni angolo di strada e su ogni pagina di giornale "con il cinismo tradizionale di coloro che sanno che gli uomini sono portati a giustificare gli affronti di cui non si vendicano", G.Debord, In girum imus nocte et consumimur igni.
Non li giustifico e non li ringrazio. Ti prego, non farlo neanche tu.