lunedì 28 aprile 2008

NOSTRA DEA DI MASSIMO BONTEMPELLI

Bontempelli scrisse Nostra Dea, tutto d'un fiato, nel gennaio del 1925. Era stato lo stesso Pirandello (amico, e direttore - cioè regista teatrale - del Teatro degli Undici) ad incoraggiarlo nella stesura di un testo teatrale, qualche anno prima.

E difatti, Bontempelli vi pensava dall'estate del '22.

A sentir lui, non aveva alcuna voglia di scrivere una commedia, non amava particolarmente il genere teatrale; eppure, Nostra Dea è uno dei "classici" del teatro italiano.

La commedia conobbe, ai suoi inizi, alterne fortune: se a Roma fu un successo, a Milano fu un vero e proprio fiasco. Bene in alcune città straniere (Praga, Madrid), male in altre (Varsavia, Budapest).

Ma di che parla, la storia? L'intrigo è semplice; vediamo dapprima la struttura della commedia.

Essa è divisa in 4 atti, la scena del primo e dell'ultimo si svolge nel salotto della casa di Dea, la protagonista, quella del secondo atto in casa di un altro personaggio (Marcolfo) e per il terzo atto la scena si sposta in un locale, il "Poliedric Superbal", pieno di sale e salette, poltrone divanetti e un bancone di bar. Se si intende musica essa è solo jazz (anzi, come scrive Bontempelli: giazz).

Volendo sintetizzare al massimo, è una storia di burattini e burattinai (ma i burattini non sanno di essere tali ed i burattinai è gente sempliciotta): Dea, donna sofisticata e dal carattere mutevolissimo, Marcolfo, giovanotto per il quale talvolta nutriamo dubbi sul Q.I., Vulcano, volpone di provincia. Poi qua e là personaggi a corollario: il medico, donna Fiora, l'artista-sarta, la contessa Orsa e il suo amante Dorante, due cameriere, la più importante delle quali è Anna.

Tutto ruota attorno a Dea, la quale poveretta è un essere privo di qualunque personalità, una sorta di robot. A meno che non si compia il miracolo: un abito appropriato ed ecco che la giovane donna ACQUISTA la personalità del suo abito. Un esempio? Ma anche due: se indossa il tailleur rosso chiaro vivace, diritto e molto maschile, eccola trasformarsi in una pantera, rapida e luminosa, dalla voce calda e squillante, di quelle donne insomma che non ammettono indecisioni, balbettii, né tantomeno rifiuti.

Se invece la cameriera Anna le offre un abito pacato, che so, color grigio gola-di-tortora, allora Dea si trasformerà in un poema di morbidezza, dolce dolce, timida con gli occhi umidi. Un angioletto, insomma.

Di che far disperare gli uomini. Ma in fondo, non è quel ch'essi desiderano? Tante donne in una sola.

Non racconto la trama, ché il testo è breve e non amo anticipare i contenuti.
Dico invece - velocissimamente - l'impatto che fece su Bontempelli e Pirandello (su quest'ultimo, soprattutto) la recitazione della giovanissima e inesperta Marta Abba: bouleversant. Un provino che le valse per la vita (professionale, e non solo).

E' un sogno per tutte le attrici, quello di poter recitare questo ruolo: richiede grande versatilità.

Ricordo personalmente: Rossella Falk e Carla Gravina.
La prima fa pensare di più alla Dea in tailleur, la seconda alla gola-di-tortora.
Nessuna delle due alla donna-serpente.

Per la bellezza di Marta Abba, credo (ma non potrò mai saperlo) che sia stata la migliore Dea.

Buona lettura.


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[La maggior parte delle informazioni provengono da: "Note ai testi" in Massimo Bontempelli, Opere scelte (a cura di L. Baldacci), Milano Mondadori (I Meridiani), 2004 (1978), pp. 947 e sgg.]

Le città bianche

Nella mia vita ci sono le città bianche.




































Tutte figlie della tavola urbinate

Il passato ritorna e diventa presente poi torna passato


Nel 1988 un uomo mi chiese di partire all'improvviso con lui alla volta di questa città. Un modo per trascorrere il Natale lontani da tutti.

Rifiutai.

Sedici o diciassette anni dopo (non ricordo più), andai per davvero in questa città (con lo stesso uomo).

Il passato si faceva presente.

Ora a distanza di ancora altri anni, quel futuro poi presente, è diventato passato (il mio personale Medioevo futuro).

Ma pieno di bei ricordi.

P.S. Si sarà riconosciuta, la città. Diversamente... cliccare sulla foto.

Un cielo di gabbiani (e poesia di Roberto Carifi)


Lo sai, amore, che mi congedo in fretta,

che ho un destino nelle tasche vuote

e un angelo spoglio che di sera

mi piange lindo sul petto.

E passo sotto le mura di novembre

con un messaggio da portare

Non so né a chi né dove,

scritto a singhiozzo come una preghiera,

e vo quasi fratello nella notte

guardando ombre sorvegliate,

certi lumini accesi

e l’occhio spento di anime perdute.


Roberto Carifi, Amore e destino. Firenze, Crocetti, 1993, 9€30




domenica 27 aprile 2008

Ti racconto tre quadri di Edward Hopper


Tra un treno e l’altro

L’ha vista seduta nello scompartimento C carrozza 193 d’un treno di dieci anni fa che sfogliava una carta geografica mentre al suo fianco scorreva imperterrito un paesaggio alpino, stanco e un po’ pieno di sé. Sarà stato per quel soprabito impeccabile e blu o forse per la falda del cappello anni ’40 sotto cui si scioglieva un’onda di capelli mogano… Sarà che Goethe aveva ragione (l’eterno femminino ci attira verso l’alto) e che lei era proprio lei, quella da sempre attesa, quella che già esiste allacciata ai nostri tendini fin da bimbi, sarà per quello che volete voi, Edoardo si innamorò di lei prima che potesse arrivare a scorgerne le gambe avvolte in calze 10 den. La prima cosa che pensò, senza neanche aver visto il colore dei suoi occhi fu: “Vorrei fare l’amore con questa donna”. Pensò, ma non disse nulla.

Non la rivide nei successivi dieci anni.

Ed oggi all’improvviso quando lei era null’altro che spina conficcata nell’intestino (da allora aveva inspiegabilmente sofferto di colite), è entrato nel caffè di questo hôtel che costeggia la strada ferrata e l’ha rivista. LEI.

Un altro cappello, una cloche nera stavolta, su occhi bistrati di viola. Ancora non vede il colore dei suoi occhi. Edoardo è entrato per caso, è sceso dal treno per prendere una coincidenza… Non è sola, peccato. Di fronte a lei siede un’altra donna, una versione miniaturizzata di lei: si capisce subito che l’altra tenta di imitarla in tutto e per tutto. Infatti anche l’amica porta una cloche. Hanno ordinato un tè in coppette cinesi (che arroganza, quest’albergo!) e la luce che filtra dalla finestra non nasconde la scritta di un graffito murale che inizia per “SUE”. “Sue che? Susan, forse dovrei chiamarla Susanna, Susie, Sue… Che nome insulso! No, non può essere il suo”, pensa e non dice nulla Edoardo, bloccato all’ingresso del caffè. Pensa che forse è la sua ultima occasione per fermare questa donna (di tempo ne ha perso fin troppo), prima che sia troppo tardi: a occhio e croce, tra dieci altri anni, lei sarà sui cinquanta e certo neanche lui è più un fanciullo…

Ora o mai più. Mi butto” pensa, e si dirige verso il tavolo dove siedono le due donne. Nessuno sembra fare caso a lui, la coppia del tavolo affianco è intenta a parlare sommessamente; fumano, e l’uomo si guarda le unghie. Brutto segno.

Buongiorno, signora… signorina. Mi scusi, ma credo che ci siamo incontrati in un treno qualche tempo fa… Era nel…

Pardon?” fa lei.

Pure straniera...”, pensa terrorizzato Edoardo e subito vorrebbe recuperare gli anni di scuola in cui non volle mai approfondire lo studio delle lingue straniere.

Ah, mi scusi. Ero soprappensiero. Mi dica… Ci siamo già conosciuti? E dove?” Edoardo ha l’impressione d’essere caduto di piatto nelle pagine d’un romanzetto rosa. Dieci anni che la cerca con gli occhi e tira fuori una frase da cliché. Con lei! Si può essere più banali? Lei nel frattempo ha perduto l’accento straniero. “Che dico ora? E se dalle toilettes sbucasse un marito?”

E' solo un attimo, Edoardo conclude tra sé: “E se sbuca un marito, chissenefrega!

Nessun marito sbucò per i successivi quindici anni. Siamo nel futuro e Sue si affaccia alla finestra: il tempo ha concesso una tregua. Ha sciacquato e riposto la tazzina del caffè ed ora metterà il suo cappello di paglia; va bene per agosto. Va bene per andare a trovare Edoardo, laddove riposa in pace da un mese. Poi prenderà un treno che la porti via da Cape Cod.

Ti racconto un quadro: Parigi attraverso la finestra di Chagall


Sogno n. 5


A mezzanotte, in cucina, amo appoggiare volto e mani ai riquadri trasparenti dell’unica finestra. Perché a mezzanotte s’accende tutta. D’oro, diventa la torre di ferro, quella che gli stranieri del mio paese, storpiandola, chiamano E-IFFEL. È l’unico momento in cui amerei bere un tè, brindando al miracolo che si ripete: mezzanotte meno un minuto, niente. Mezzanotte in punto: d’oro, brilluccica come gonna con le paillettes a festa, come scoppio di felicità in una città ove l’unica cosa che manca è proprio quello che tutti vi cercano: la felicità.
La regina di Parigi è la solitudine e stanotte è ancora più solitaria, la neve viene giù anch’essa stridente, come nota di festa a un funerale. Ce ne stiamo qui, in un monolocale a rivendicare la nostra conquistata autonomia di uomini e donne responsabili che si lavano e stirano i calzini da soli, che mangiano puntualmente nel bistrot pulito e preciso eletto a nostra personale sala da pranzo. Ci concentriamo sul filetto al pepe verde stupendoci se quel santo colore ci lenisce un poco il crampo che ingoia tutto.
Ieri ho fatto un sogno. E in mezzo, dappertutto, volavano i colori di Chagall.
Noi tre, noi tre insieme, tornavamo nella Honfleur amata da Baudelaire e da Monet, luogo nativo di Erik Satie. Nei week-end presa d’assalto dai parigini, non provavamo neanche a cercare un albergo, sistemandoci in una stanza affittata in riva a quel mare che di giorno è sempre lontano... Disfatte le valigie, ce ne andavamo a zonzo per Deauville, Trouville, arrivando fino a Cabourg. Passeggiata ventosa sul lungomare, poi nella città irrimediabilmente turistica, mentre Xavier andava a spendere i suoi bravi 200 euro alle slot-machines. E comunque a Deauville, Trouville e Cabourg eravamo andati per dire addio anche a quei luoghi.
Serata di nuovo a Honfleur in un locale consigliato dalle guide, in cui Xavier gustava ancora una volta le sue ostriche; io altro (e quest’ “altro” non mi piaceva per niente). François voleva a tutti i costi prendere un bagno notturno nella Manica, nonostante i pochi gradi dell’aria circostante e i molti meno dell’acqua. Conoscendolo, gli suggerivo di rimandare all’indomani, ben sapendo che l’incostanza gliel’avrebbe impedito. E infatti, l’indomani, di buon’ora, proponevo a loro due di arrivare alle falaises gemelle delle bianche scogliere di Dover, a Etretat, la suggestiva, verdesmeraldo Etretat, che finisce in punta alla scogliera con sotto 85 metri a separarti dall’acqua, dal tuffo, l’oblio definitivo. Ovunque vento, sole, freddo e caldo, fiumiciattolo di persone che risale ripidi scalini che conducono su. Ma più bello ancora era il viaggio in auto per arrivare da Honfleur a Etretat, quando lo sguardo corre fuori dal finestrino e scorre dentro di te, portandoti via. Via da te.
E sul ponte di Normandia, mi scoppiava forte il cuore, su quel giovane ponte che attraversa l’estuario immenso della Senna e poi il canale, natura naturale e natura artificiale, elica che s’arrampica su, più su, fin dentro le nuvole. L’autostrada per il cielo, ponte che curva e sale, sale e poi scende, scende giù in picchiata, per resistere alla violenza di un tornado.
Attraversavamo poi Le Havre. Chissà com’era questa città prima che la radessero al suolo, nel ’44. Ricostruita in quattro e quattr’otto: blocchi prefabbricati di cemento armato. Uno choc, ma negli occhi c’era il sole, il mare e giardini ordinati dappertutto. Poi ancora prati lentigginosi di margherite, prati normanni tappezzati di mucche, cielo che confina con il verde brillante e meli in fiore. Foto, tante inutili foto. Nel sogno approdavamo infine a Valmont, cittadina poverissima, di quelle il cui unico sfogo è la brocante, fiera di poveri, qua e là sui banchetti scarpette smesse di bimbo per 4 euro. Si finiva in una brasserie, ch’era già tardo pomeriggio con davanti agli occhi tre barchette di salsicce patate fritte e un bicchiere di birra. E Chagall spariva, Chagall, dopo un turbinio di colori verdi blu e viola.
C’era la neve, all’improvviso, la neve sul mare. La neve su Parigi. Parigi sul mare.

Una riga nel cielo si allunga
avvicina la distanza del viaggio
punisco il mio lato spoglio
con il freddo, neve impervia
neve che sale
sbadiglia
e affranca la vista
fiochi spiragli
quando tornerò
rimango a spargugliare
foglie per terra per aria, incespico
e non racimolo
dimmi quanti piedi mancano
all’orlo, e poi prometto
non volerò giù.

Anzi, lo giuro.
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[La poesia Una riga nel cielo si allunga è di Paola Turroni]

Ti racconto un quadro: Ragazza alla finestra di Gina Roma


L’occhio di dio

Francesca scruta di sottecchi la finestra, riordina le ultime cose in cucina; la corriera è in ritardo.

L’ulivo che si staglia oltre il rettangolo trasparente è ormai rinsecchito; di sicuro prima o poi lo abbatteranno; fortuna che tutti sembrano dimenticarsene. Seppure già atrocemente contorta, quella pianta era sempre gravida di frutti oleosi quand’era bambina. Almeno lei così ricorda.

Ora è in piedi, dietro alla finestra che lascia chiusa, le tendine sono raccolte ai lati e quel che si vuol vedere si vede.

Niente, la corriera non risale nemmeno il pendio che arranca lungo le curve a gomito del paese, pensa.

La immagina, tutta blu e impolverata, portare nella sua pancia l’uomo che è tutta la sua vita: Luca. Lui ha gli occhi del cervo sorpreso per la carabina che il cacciatore gli punta addosso. E flessuoso è quel corpo di fanciullo cresciuto a dismisura, lottando suo malgrado contro il tempo.

Castagne appena sgravate dal loro guscio, castagne lucide sono ammassate nei suoi capelli e mani che sembrano uscire da un affresco di Raffaello, dita lunghe e incorporee a unire il divino con la terra intrecciano la vita di lei. Trait d’union, passaggio di vita, tocco impalpabile che sfrigola il cuore di una donna.

A rallegrarla, una voce grave e quasi impossibile, come la porpora che infiamma il tramonto d’una città bosniaca, come il grigiorosso della brace agonizzante nel camino ancestrale, come il saggio silenzio di un’alba italiana.

Luca ha la pelle alabastro e le occhiaie inevitabili, suo cruccio da sempre, per lei sono perle nere che illuminano l’incarnato della mandibola e il viola tumefatto delle labbra.

A lui, voracemente tenero, eternamente imbronciato, a lui ribelle nelle parole e panna liquida tra le sue braccia, a lui come guanciali lei offrì i suoi seni.

A lui, che è dio quando dorme.

Francesca guarda meglio, ondeggiando come un salice dinanzi alla finestra: è tardi ormai; si sporge dal davanzale.

Sereno è il cielo piatto, non una foglia trema: scandisce il tempo che passa, il suo cuore. Tra poco lui sarà sotto casa, nella furia baldanzosa dei suoi vent’anni, ricco solo d’uno zaino ed il congedo dalla leva militare.

Torna a casa Luca, oggi. Torna a casa suo figlio.





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foto prelevata da internet

Ti racconto un quadro: Marianna di Everett Millais

























Fruscio d’acque. Medioevo futuro

Dalla vetrata istoriata, l’angelo non sembra più rivolgersi alla Vergine beata stamattina: il suo dito ammonisce severo Marianna. L’oro delle piume e il candore dei piedi nudi non riescono ad mitigarne lo sguardo che, come dardo, offende la languida figura della giovane donna.

Solo il blu velluto del suo abito infatti l’osteggia, ergendosi a difensore della donna ch’esso veste; Marianna inarca indolentemente la schiena all’indietro. È stanca.

Ode un fruscio d’acque: è il ruscello che scorre verso il basso. Ormai l’autunno è padrone incontrastato del giardino selvatico che circonda la sua casa e alcune foglie d’acero sono penetrate chissà come dalla finestra giacendo come barche in secca sul tavolino sottostante. La notte è stata lunga e insonne e la giornata che è appena sorta si preannuncia implacabile.

Marianna non ha tregua, davanti a sé due sole vie: cancellare Angelo, l’ipocrita sposo o aver di lui pietà e perdonarlo.

In nome di Dio, pensa.

La cintura che sottolinea la vita snella pesa come ferro insanguinato e il fulgore delle gemme preziose non l’ingentiliscono, stamani. Lei si acconcia come meglio può i capelli e sfiorando il cuoio capelluto conficca con vigore studiato la forcella di rame nella chioma color del miele… Che fare? Che fare?

La virtù di Angelo s’è svelata alfine come mera ipocrisia: non era lei che amava, bensì l’apparente armonia sociale della vita coniugale. Di lei e del suo casato s’è servito spudoratamente. È tempo di spengere il lume che le ha tenuto compagnia durante la notte abortita. È stanca, Lady Marianna. Ha ripercorso nel buio sconsolato la storia dell’idillio in cui Angelo era l’uomo dei principî, l’uomo ideale. Suo marito.

In nome del suo rigore, lei gli aveva perdonato il carattere brusco e violento, l’irascibilità, le giornate passate in silenzio lontani uno dall’altra quando lui partiva a cavallo per darsi alla macchia (a caccia di caprioli, diceva) nei boschi di Nottingham, ma in realtà per smaltire la rabbia che covava contro di lei, rea di chissà quale crimine…

Ora Marianna sa che Angelo è un vile, un traditore ben nascosto sotto sembianze virili. Ha paura persino di ammetterlo con se stessa: un traditore della Patria, una spia che cospira col nemico, ecco chi è suo marito. Ma traditore lo è anche nei suoi confronti: quel che le era parso un angelo s’è alfine rivelato essere un demonio. Denunciarlo alle autorità? Persino la Bibbia la giustificherebbe: “occhio per occhio, dente per dente”…

Ma come potrebbe, lei ama quest’uomo. Sradicare quest’amore dall’anima come si fa con le piante putrescenti? Facile a dirsi quando il cuore non trema di sussulti al solo intendere la voce dell’amato! Lui è l’uomo. Lui, lo sposo suo.

Marianna si massaggia il collo e guarda oltre la finestra: lo vede arrivare, del tutto inconsapevole, sudato per l’ardore della caccia. Immagina l’odore del suo corpo, silvestre come i suoi occhi. E un guizzo acquoso le si agita d’improvviso nel corpo.

Agita la mano a mo’ di saluto al di qua del vetro all’uomo che avanza mostrando divertito una coppia di lepri che penzolano dalla cintura. Ora ne è certa: non lo tradirà.

In nome dell’amore, dice.



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John Everett Millais : Marianna (foto internet)


Il pensatore


Chissà a che pensa, lui...

sabato 26 aprile 2008

questa mia condizione


Sempre così: ogni volta che torno in Italia, passo il mio tempo a colmare la distanza tra il luogo dove vivo e quello in cui abitano le persone a me care (e neanche riesco a vederle tutte).

Lungo questa traiettoria stradale, magari in mezzo a un traffico caotico o sotto a una pioggia battente, immagino gli incontri e gli abbracci con le persone.

Anche gli incontri che non avrò.

ROMA!
























Sono stata a Roma, la scorsa settimana, e nel dirigermi verso le Scuderie del Quirinale per vedere la Mostra Ottocento. Da Canova al Quarto Stato, mi son ritrovata a fotografare i glutei (e non solo) del domatore di cavalli.

sabato 19 aprile 2008

Nuovo romanzo: CALLUNA VULGARIS (pubblicità)

Fresco di stampa:



Alessandro Iovinelli
CALLUNA
VULGARIS

Faenza, MOBYDICK, I libri dello Zelig, 2008,
p. 189, 14€




Perché Giuliano Spàttola, appassionato
conoscitore di cinema e letteratura, stenta a far sua
la verità che Erica, amorevole compagna dal
"passo sicuro e spedito", è costretta a opporre
alla lettura di secondo grado che lui dà della vita?
Per Giuliano, straniato osservatore di ombre
cinesi, gli accadimenti e i protagonisti in carne
e ossa esistono solo se "tradotti" in sequenze
e personaggi di celebri.
Nell'Italia dei primi anni Novanta, còlta nel
microcosmo della redazione di un giornale che
sta per essere travolto dall'avvento di una nuova
"barbarie" patinata, l'inetto Giuliano - più Zeno
Cosini che Ulrich, più Barney Panofsky che
Leopold Bloom - difendendo da una postazione
di retroguardia un'idea alta e organica di cultura,
ne incarna con ambiguità di grande spessore ora
comico, ora ironico, l'ultima possibilità
d'esistenza, l'essere cioè essa stessa vita.
Sarà il caso a trasformare Giuliano in un
protagonista sulla scena dove si decidono le
nuove strategie aziendali del giornale,
costringendolo a rimettere in discussione le
contrastate certezze private e professionali.
Nel romanzo di Iovinelli, scritto in una lingua
armoniosa e fluente, rivive lo spirito di una
sophisticated comedy, per via del ritmo e della
verve che anima i dialoghi tra i tanti personaggi
ben caratterizzati.
Anche la possibilità offerta a
Giuliano di cedere al canto della femme fatale
Verbena - trascrizione del desiderio del
contrario che ciascuno di noi si porta dentro
- rientra in un disegno narrativo che, attraverso
la sonda dell'umorismo, è capace di attingere le
profondità dell'animo umano, sciogliendo nel
sorriso sbandamenti, contrasti, dolori.

(dalla quarta di copertina)







giovedì 17 aprile 2008

La joie du bonheur d'être heureux (pubblicità)

Oggi esce in tutte le librerie francesi il libro del mio amico Pascal.

Grosso modo, traducendo, il titolo del suo nuovo pastiche suona così: La gioia della felicità d'esser felici.


Con la grossa pecca - nella traduzione - della ripetizione felic*. Forse varrebbe la pena stemperarlo in La gioia del piacere d'esser felici ... ma sarebbe meno "forte" o forse solo più "edonistico".

Sia come sia, un grosso in bocca al lupo a Pascal e alla fortuna del suo ultimo libro!



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(http://joiedubonheur.blogspot.com)


La pittura nel fumetto: Dylan Dog

Di già la copertina di Angelo Stano rinvia alla pittura: Dylan Dog è ritratto nella posa celeberrima di San Sebastiano, legato ad una colonna e trafitto da frecce in tutte le parti del corpo. Sullo sfondo, vestigia romane come se ne trovano sulla via Appia antica, occhieggiando in questo modo al dipinto del Mantegna (1480, Louvre).

Ma chi è questo San Sebastiano che tanti artisti si sono accaniti a riprodurre sulle loro tele?

Martire ad ogni costo (1), è generalmente rappresentato come un apollo cristiano, sensuale e giovanissimo (cosa che non era, avendo subìto - per sua volontà - il martirio a 40 anni).

Altro avrei da dire, ma ci tornerò altrove. Ora non voglio appesantire il blog.

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(1) cfr. a questo proposito: http://www.santiebeati.it/dettaglio/25800

E ancora a proposito: a Roma, in via
Largo Appio Claudio 346 (metrò Giulio Agricola, Linea A) da non mancare l'osteria Giuda Ballerino...


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Dylan Dog: L’incubo dipinto. Sergio Bonelli editore, Milano, n. 218, nov. 2004 pp. 98.
Soggetto e sceneggiatura di Michele Masiero. Disegni di Nicola Mari.



mercoledì 16 aprile 2008

RICOMINCIO DA CAPO (video)


Dopo i primi 2'14"

Script


What are you looking for?
Who is your perfect guy?



First of all, he's too humble
to know he's perfect.



That's me.



He's intelligent,
supportive, funny.



Me, me, me.



- He's romantic and courageous.
- Me also.



He's got a good body, but doesn't look
in the mirror every two minutes.



I have a great body, and sometimes
I go months without looking.



He's kind, sensitive and gentle.



He's not afraid to cry
in front of me.



This is a man, right?

Dire, fare


Tra il dire e il fare, c'è di mezzo il mare.

Magari.

Tra il dire e il fare, c'è di mezzo l'oziare.

martedì 15 aprile 2008

Quante parole?


Quante parole - una madre - deve estrarre dal dizionario della propria vita per consolare e strutturare il figlio sedicenne, per dargli il gusto della vita quando lui vorrebbe abbandonare tutto, gettare la spugna, proprio come facevi tu - sua madre - alla sua stessa età?

Quanta pazienza e dolcezza e fermezza deve ostentare per fargli capire che tutto è così SOLO perché HA SEDICI ANNI?

Morbida malinconia


Malinconia
la vita mia
struggi terribilmente;
e non v'è al mondo, non c'è al mondo niente
che mi divaghi.

incipit de
La Malinconia (Canzoniere, 1961)
di Umberto Saba

Voltare pagina ovvero The Day after

Ieri ha vinto Berlusconi.

Perché questo è il Paese di Pinocchio.

E di quelli che si fanno belli riempendosi la bocca di parolacce, pensando d'esser più attraenti.

E questo è anche il Paese che ho lasciato. Per il momento.

Giriamo pagina, sperando che non sia l'ultima del libro ITALIA.

Mi piace, Non mi piace

Mi piace/Non mi piace... (1)

Intanto mi piace questa cucina.

Perché è vera. E anche un po' incasinata.
Perché sa di antico e mi ricorda l'immensa cucina (il locale più grande della casa) di mia nonna paterna.

Mi piace essere attenta.
Non mi piace essere pigra.

Va da sé che non sempre sono attenta e che spesso sono pigra.

Chi vuole aggiungere del "suo"... si accomodi nei commenti.


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(1) J'aime/j'aime pas "Roland Barthes par Roland Barthes" (1975)

lunedì 14 aprile 2008

50 anni oggi


Erano già fuori di casa ieri sera: parlottavano tra loro con tono sommesso, a far finta di niente, come si trovassero tutti lì riuniti per caso.

Stamani hanno divelto la porta d'ingresso e mi si sono buttati addosso.

Cinquant'anni. Cinquanta. Che numero.

Il mondo visto da un cane






(Mustang. Non parla.)

domenica 13 aprile 2008

Come canne


Ci sono persone che mi fanno pensare a questa foto qui: esili, compatte solo se si uniscono ad altre come loro.

sabato 12 aprile 2008

Ma quando arriva la primavera? Poesia di René Char


Ne laisse pas le soin de gouverner ton coeur à ces tendresses parentes de l'automne auquel elles empruntent sa placide allure et son affable agonie. L'oeil est précoce à se plisser. La souffrance connaît peu de mots. Préfère te coucher sans fardeau: tu rêveras du lendemain et ton lit te sera léger. Tu rêveras que ta maison n'a plus de vitres. Tu es impatient de t'unir au vent, au vent qui parcourt une année en une nuit. D'autres chanteront l'incorporation mélodieuse, les chairs qui ne personnifient plus que la sorcellerie du sablier. Tu condamneras la gratitude qui se répète. Plus tard, on t'identifiera à quelque géant désagrégé, seigneur de l'impossible.


Pourtant.


Tu n'as fait qu'augmenter le poids de ta nuit. Tu es retourné à la pêche aux murailles, à la canicule sans été. Tu es furieux contre ton amour au centre d'une entente qui s'affole. Songe à la maison parfaite que tu ne verras jamais monter. A quand la récolte de l'abîme? Mais tu as crevé les yeux du lion. Tu crois voir passer la beauté au-dessus des lavandes noires...


Qu'est-ce qui t'a hissé, une fois encore, un peu plus haut, sans te convaincre?


Il n'y a pas de siège pur.


René Char (J'habite une douleur, 1947)

Titolo leggero (quello mio, ché J'habite une douleur...) e poesia pe(n)sante. Non mi azzardo nemmeno a tradurla: tentare di tradurre René Char equivarrebbe a presentarsi volontari di fronte a un plotone di esecuzione. E detesto le parafrasi.

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Immagine: Boccioli di fior di ciliegio (del Giappone), un attimo primo che divenissero fiori aperti


venerdì 11 aprile 2008

Indietro di 16 (e più) anni




Aspettavo mio figlio, quando l'elvetico Stéphane Eicher cantava questa canzone. Sempre a quei momenti resterà legata questa canzone.

giovedì 10 aprile 2008

Fotografando la velocità, velocemente ricordando

(Dedicata a G.)



R
ipenso il tuo sorriso, ed è per me un'acqua limpida
scorta per avventura tra le pietraie d'un greto,
esiguo specchio in cui guardi un'ellera e i suoi corimbi;
e su tutto l'abbraccio di un bianco cielo quieto.

Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,
se dal tuo volto si esprime libera un'anima ingenua,
vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua
e recano il loro soffrire con sé come un talismano.

Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie
sommerge i crucci estrosi in un'ondata di calma,
e che il tuo aspetto s'insinua nella memoria grigia
schietto come la cima di una giovane palma...

Festa!


I bicchieri sono quattro.

Noi siamo quelli della banda dei 4, ci riuniamo tutti i martedì sera.

E martedì sera, loro tre mi hanno fatto la sorpresa anticipando il mio compleanno, con torta e candeline e spumante
(mousseux ou pétillant au juste ?).

Festa e risate da non poterne più.
Anche questo è il nome dell'amicizia.

(Grazie a Isabella, Eugenio e a Jean-Guy)

Vivo (canzone)




Ascoltare le parole,
non guardare la Bertè,
stemperare il tutto.

Et voilà, c'est mon portrait.

Botero, per chi lo ama e per chi no

(Dedicato ad Annamaria M.)

BOTERO

Gli ultimi quindici anni

17 giugno – 25 settembre 2005

Roma, Palazzo di Venezia






Fernando Botero dimostra di non aver dimenticato le tele di alcuni grandi maestri del passato. I suoi omaggi sono trasversali, attraversano secoli e tendenze; i richiami al Gauguin tahitiano ne Due donne alla spiaggia, agli espressionisti, a Velazsquez o a Goya suoi conterranei, non sfuggiranno ai più.

I colori armonizzano i complementari espressionisti facendo loro la gaiezza delle tele che sempre ricordano la priorità concettuale del pittore: gli esseri umani: che siano ripresi nelle loro squallide (bordelli) o stereotipate esistenze (La vedova), l’umana simpatia boteriana occhieggia da ogni soggetto.

Botero va all’essenza di quel che vuol rappresentare; così, ne I bambini che giocano a football, ciò che contorna, fino ad invadere, anzi ad accerchiare, i soggetti, è il verde del campo di gioco. Nella memoria soggettistica di Botero siamo fermi agli anni ‘50-’60. Soggetti che appartengono al ricordo di quel che non è più.

Ritrae à sa façon, omaggiandoli, Ingres e Delacroix, Giacometti; non solo: il suo Cristo ricorda quello di Goya col sangue che cola come da spine invisibili, alla maniera di Grünewald. E poi ci sono le felci di Henri Rousseau (Il club del giardinaggio), la postura de Gli Ambasciatori di holbeniana memoria ne Il palazzo presidenziale, con anche un cagnolino alla Goya che rimanda al Velazsquez di Las meniñas.

Un’intera sala illustra la sua interpretazione dei fatti di Abu Ghraib: nelle tele imponenti, Botero rivisita Siqueiros con il verde morbosamente malato che fu di Andy Warrol. Il rosa suppliziato delle carni dei torturati tende già al sangue – nelle prigioni – e il rosso cardinalizio delle poche vesti dà lignaggio a corpi senza più dignità, né identità (non si vedono mai i volti, sacchetto di carta presente o non presente ad incappucciarne le teste).

Nelle sue nature morte dipinge gli oggetti secondo una personalissima reinterpretazione di Matisse (Natura morta con caffettiera), Van Gogh (Natura morta con sedia). Il celeste magrittiano – che già fu di Cézanne – invita e seduce da Il grande vaso. Anche le dimensioni e le sospensioni sono quelle dell’artista belga.

I carboncini risentono invece dell’allusione intertestuale a Morandi, anche se la frutta rappresentata rimanda ai sapori mediterranei della sua terra: le angurie, cipolle, arance e cetrioli che siano. Non manca nemmeno un accenno allo Chagall primoparigino (Natura morta con violino), dove l’effetto quasi annullato dall’assenza di blu a favore di una forte pervadenza della sanguigna (I ballerini), comunque rievoca la Parigi di Renoir, ma senza le altrui indulgenze, né stratificazioni sociali. Si è tutti nella miseria, infatti, tutti stretti, tutti insieme appassionatamente.

Ancora di sapore magrittiano-chagalliano è La donna che cade dal balcone, ove nella fissità dello spazio regolato e calibrato dall’onnipresente orologetto al polso della donna, il movimento verticale, e inesorabilmente votato alla caduta, rimane sospeso – come volo – come reale e in fondo giocoso absurdum.

Nell’ultima stanza, due pareti su quattro sono dedicate alle rivisitazioni di grandi opere classiche. Alcune più marcate (Piero della Francesca), altre meno accessibili (i pavimenti e le porte di Pieter de Hooch ne La monaca), ma anche Le Revenant di Gauguin e certi pittori spagnoli ormai dimenticati.

Alle pareti dedicate alla corrida e agli spazi agresti, luoghi apparentemente senza tempo, c’è qualche elemento (a volte solo uno) che àncora i soggetti nella realtà odierna (la sigaretta, l’uomo col cappello) a dimostrazione, forse, che la realtà ritratta è ricordo e che essa è ormai contaminata dall’oggi, se non per sempre perduta.

Roma, 11/08/2005



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Botero "La vedova" (1997) immagine prelevata da internet

Senza troppa importanza








QUIEN SABE

Appena un’ora fa

vita, mi apparivi

nitida e banale

E nell’ora che va

promessa non attecchiva:

frattale della pena

non vitale, né amena costanza,

sai quanto in fretta sfioriva

scivolandomi altera tra le dita.

Ma nell’ora che viene

gettata è la speme

ch’ogni legge ignora:

la ruota gira di nuovo

di nuovo verso l’ignoto.

La presunzione dei tulipani





















La mia ambizione

(Au lointain)


Vieni ancora ogni giorno a visitare

i ricordi miei tiepidi e fugaci


ma raramente sosti nel mio cuore

e brancolante vegeti nel limbo


di quell’attesa sempre più parca di

desiderî ove svernano immote

le umani passioni e fuggitive.

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Aprendo la finestra di casa il 7 aprile 2008


Omaggio a Montale
























Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede

che la realtà sia quella che si vede.


Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio

non già perché con quattr'occhi forse si vede di più.

Con te le ho scese perché sapevo che di noi due

le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,

erano le tue.

(da Satura, Xenia II, 1956-1971)




Il gatto e l'orologio



Due oggetti che parlano.
Ma parlano in modo cifrato o segreto, messi lì accanto uno all'altro; la loro lingua mi è incomprensibile.

Che vogliono dire? Che realtà esprimono?

Ma è come per certe lingue musicali: non si capisce nulla, ma bello è il suono.

La passeggiata (di Chagall)


Questo è un quadro che amo immensamente.

Lo cerco (cioè la sua stampa) da anni e non mi riesce di trovarlo.

La moglie Bella - incontrata nel 1909 - ha appena dato a Marc una figlia, Ida.

Qui sono ritratti felici.

Io il quadro lo interpreto così per me stessa. Introietto:

in ogni coppia che funzioni (male o bene, poco importa), uno dei due elementi tiene i piedi bene in terra e l'altro è come un palloncino che tenderebbe a volarsene via, se non fosse trattenuto dall'altro come per un invisibile spago.

Sicché entrambi ricevono per compensazione un elemento che a loro manca: chi è saldamente ancorato a terra, alla vita pragmatica di tutti i giorni, ha una sua "estensione aerea" nell'altro; chi invece tenderebbe a vivere un po' al di sopra di tutto, rischiando di perdere contatto con la realtà, viene "saldamente trattenuto".

In tutto questo, io mi trovo a dover giocare tutti i due ruoli, a fasi alterne.

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1917 - immagine prelevata da internet

lunedì 7 aprile 2008

L'attesa


L'attesa. Lo sguardo della donna e del suo cagnetto vanno oltre il perimetro del quadro di Carrà.

Lontano, forse più nel tempo che nello spazio.

Chi o che cosa attendono? Non è dato sapere. Forse un uomo.

L'attesa è un attimo sospeso nel tempo; sospeso e intenso, di durata imprecisata.

Quando essa prende termine, non è sempre detto che quanto sperato si realizzi... anche quando si realizza.

domenica 6 aprile 2008

Guglie


Ora non ci passo quasi mai davanti, ma finché ho soggiornato in albergo, mi piaceva buttarci l'occhio.

Quanto vicino a dio voleva spingersi l'uomo?

Anche ora sfida i cieli, ma in forma parallelepipeda. E' più sfrontato, l'uomo.

Camminando per le strade ...




... Con gli occhi in su o in giù

Sarà pure una metafora, ma certo che se guardo in su sono felice e leggera e se guardo in giù sono tetra e terrena.

Però sono più vera e me stessa se guardo il pavé.

La bicicletta


Questa bicicletta mi ha dato molto da pensare.

L'ho fotografata una domenica pomeriggio solitaria, parcheggiata accanto ad un semaforo. Non vicino ad una casa né a un posto di lavoro. E nemmeno vicino all'università.

Bella, lucida e come sorridente.

Dotata di certo di un prodigioso proprietario (e fiducioso).