lunedì 31 marzo 2008

L'urlo



A volte come stasera c'è un urlo che vorrebbe uscire da me contro il mio ottimismo, contro la voglia di essere felice.

Un urlo che mi viene da un passato non troppo lontano.

Solo se fossi su questa spiaggia tanto amata e neanche troppo lontana, solo qui, saprei tirarlo fuori.

Ma mi dilanierebbe. E allora deve restare dentro.

La lanterna


Le birre, le passeggiate sotto alla neve, i pensieri, quelli brutti e quelli belli, la forza, l'insicurezza. La forza.

venerdì 28 marzo 2008

Miti: Mélusine
















Strana storia, quella di Mélusine: una fata che si trasforma e a cui cresce una coda di serpente nella tinozza in cui si lava.

La storia di un amore che sarebbe durato per sempre se il suo uomo avesse voluto rispettare la sua breve privacy nella stanza da bagno.
E anche il simbolo che ogni donna ha una parte "bestiale" dentro di sé.

Foss'anche solo una coda.

Per la storia in italiano, clicca qui:

Ciclo: Grandi Donne. Jeanne d'Arc


















Altra donna che mi ha sempre affascinato e verso la quale ho operato proiezioni identitarie, la pucelle d'Orléans, nata in un paesino non lontano da dove son nata io.

Una pazza forse.

Ma evviva chi sa vivere la propria follia con simil ardore.

giovedì 27 marzo 2008

Ciclo: Grandi Donne. Calamity Jane
























Eh sì, questa è Jane Russell, ma anche Calamity Jane come me la immaginavo io, quando sognavo di diventare una donna bella e intraprendente, che avrebbe piegato qualunque uomo avesse incontrato nella vita...

Solo più tardi scoprii il vero volto di Calamity Jane, pseudonimo di
Martha Jane Canary-Burke.

Ciclo: Grandi Donne. Florence Nigthtingale


Avevo dieci anni e volevo diventare come lei.

Per non fare un torto a nessuno... (Christophe Willem)




Dedicata a Jean-Guy, un altro amico con cui canto il martedì sera (questa canzone)

Double jeu

Quand je serai grand je serai bee gees
Ou bien pilote de formule 1
En attendant je me déguise
C'est vrai, que tous les costumes me vont bien
Le rouge, le noir, le blues, l'espoir noir
De toutes les couleurs je m'envoie


C'est comme ça qu'est-ce que j'y peux ? (X2)
'Faudrait savoir ce que tu veux (X2)
C'est comme ça qu'est-ce que j'y peux ? (X2)
'Faudrait savoir ce que tu veux (X2)

Oui, quand je serai grand ça sera facile
Enfin je saurai qui je suis
Oui mais, en attendant je me défile
C'est vrai, je me dérobe et je me fuis
Je pleure, je ris, j'ai peur en vie, je sais
De toutes les couleurs je m'envoie wouuuh

A qui la faute ?
Je suis l'un et l'autre
Double jeu
A qui la faute ?
Je suis l'un et l'autre

'faudrait savoir ce que tu veux (X2)
C'est comme ça qu'est-ce que j'y peux? (X2)
Faudrait savoir ce que tu veux (X2)
Après tout qu'est-ce que j'y peux? (X2)
Faudrait savoir ce que tu veux (X2)

Wouuuh

Faudrait savoir ce que tu veux (X2)

Quand je serai grand qu'on se le dise
Je serai vendeur dans les magasins
En attendant je me déguise
En chantant dans ma salle de bain

Faudrait savoir ce que tu veux (X2)
C'est comme ça qu'est-ce que j'y peux? (X2)
Faudrait savoir ce que tu veux (X2)
C'est comme ça qu'est-ce que j'y peux? (X2)

Quand je serai grand je serai dans le showbiz

Un po' di leggerezza (Laura Pausini)

(Una versione un po' ... veloce)



Un po' di ritmo, dài, che non sono sempre malinconica!

La cantiamo insieme?

Tu non rispondi più al telefono
E appendi al filo ogni speranza mia
Io non avrei creduto mai di poter
Perder la testa per te

E all'improvviso sei fuggito via
Lasciando il vuoto in questa vita mia
Senza risposte ai miei "perché" adesso
Cosa mi resta di te

Non c'è , non c'è il profumo della tua pelle
Non c'è il respiro di te sul viso
Non c'è la tua bocca di fragola
Non c'è il dolce miele dei tuoi capelli

Non c'è che il veleno di te nel cuore
Non c'è via d'uscita per questo amore
Non c'è, non c'è vita per me, più
Non c'è, non c'è altra ragione che mi
Liberi l'anima

Incantenata a notti di follia
Anche in prigione me ne andrai per te
Solo una vita non basta, no,
Per me

E anche l'estate ha le sue nuvole
E tu sei l'uragano contro me
Strappando i sogni ai giorni miei te ne sei
Andato di fretta perché

Non c'è che il veleno di te sul cuore
Non c'è via d'uscita per questo amore
Non c'è vita per me, più
Non c'è altra ragione per me

Se esiste un Dio, no, può scordarsi di me anche se
Fra lui e me c'è un cielo nero nero senza fine
Lo pregherò, lo cercherò, lo giuro ti troverò
Dovessi entrare in altre dieci cento mille vite

In questa vita buia senza di te sento che
Ormai per me sei diventato l'unica ragione
Se c'è un confine nell'amore giuro lo passerò
E nell'immenso vuoto di quei giorni senza fine
Ti amerò

Come la prima volta a casa tua
Ogni tuo gesto mi portava via
Sentivo perdermi dentro
Di te...

[coro]

Canzone dedicata a un amico di nome Eugenio (e alle nostre "cantate" del martedì sera)

Almeno tu nell'universo (video Mia Martina)

Perché noi donne vorremmo che il nostro uomo fosse così, e viviamo tutta una vita con questa speranza:




Se vuoi cantarla:

Sai, la gente è strana prima si odia e poi si ama
cambia idea improvvisamente, prima la verità poi mentirà lui
senza serietà, come fosse niente
sai la gente è matta forse è troppo insoddisfatta
segue il mondo ciecamente
quando la moda cambia, lei pure cambia
continuamente e scioccamente.
Tu, tu che sei diverso, almeno tu nell'universo !
un punto, sai, che non ruota mai intorno a me
un sole che splende per me soltanto
come un diamante in mezzo al cuore.
tu, tu che sei diverso, almeno tu nell'universo!
non cambierai, dimmi che per sempre sarai sincero
e che mi amerai davvero di più, di più, di più.
Sai, la gente è sola, come può lei si consola
per non far sì che la mia mente
si perda in congetture, in paure
inutilmente e poi per niente.
tu, tu che sei diverso, almeno tu nell'universo !
Un punto, sai, che non ruota mai intorno a me
un sole che splende per me soltanto
come un diamante in mezzo al cuore.
tu, tu che sei diverso, almeno tu nell'universo !
Non cambierai, dimmi che per sempre sarai sincero
e che mi amerai davvero di più, di più, di più.

La bottiglia


















Li fotografai di nascosto. Non credo avrebbero voluto, se glielo avessi chiesto.

Quel che vedi è la parte posteriore della stazione ferroviaria di una città del nord transadriatico. In un giardino pubblico poco frequentato.

Loro conversano. Ma c'è quella bottiglia che fa loro compagnia che mi inquieta.

Non faccio morali: son cose che non mi piacciono.

mercoledì 26 marzo 2008

L'albero di Tarkovskij






Io lo chiamo l'albero di Tarkovskij, ma mi capirà solo chi ha visto il film Sacrificio (1986).
In realtà, quest'alberello cresce in una zona all'incrocio tra due Paesi e il suo nome, tradotto in italiano, significa "bosco di frassini".

Tale area è stata adibita a campo di concentramento durante la seconda guerra mondiale (funzionò dal 1941 al 1945).

Secondo le fonti, sono morti qui 19.432 bambini di età compresa tra i 3 mesi e i 14 anni.

Non aggiungo altro. Guarda l'albero.

Ora è un luogo di pace.

Photo by @rteJS (mia, insomma)

lunedì 24 marzo 2008

La sindrome di Stendhal


















Le retable d'Issenheim di Grunewald, nel Musée d'Unterlinden. Era il 200o, forse il 2oo1.

C'ero andata apposta in quella città per vederlo.

Una corsa pazza in auto, per arrivare prima che il museo chiudesse.

Appena in tempo. Manca meno di mezz'ora; via via, lasciamo stare l'albergo. Lo cercherò dopo.

Mi dispiace, è tardi. Le casse sono chiuse, mi sono sentita dire.

Per favore, per favore... Ho fatto 500 km per vederlo. Ignorerò tutto il resto e filerò dritta al retablo.

Hanno capito, sono entrata. Correndo correndo, vedevo sfilare i quadri affissi alle pareti, non potevo fermarmi. Che bello il chiostro, però...

Ce l'ho fatta. Sono arrivata. E' così grande che debbono ospitarlo dentro la ex-cappella.

Proverò anch'io la sindrome di Stendhal di cui soffrì Margherita Guidacci (1) dinanzi a questa tela enorme, piena di portelli da aprire come un ventaglio?

Proverò un'emozione qualunque davanti alla Crocefissione?

Ci sono, ci sono. Eccolo.

Le ginocchia si piegano. E' stupendo.

La Sindrome di Stendhal (2), l'ha spiegata la dottoressa Magherini (cfr. libro dal titolo eponimo, Ponte alle Grazie, 1989) : è un malessere, una specie di svenimento che si prova dinanzi a un'opera d'arte che richiama ai nostri sensi smarriti un "insoluto" che alberga a nostra insaputa dentro noi stessi, e che ci sconvolge.

Ma io non sono svenuta come lo scrittore francese.

A me pervase lo spirito di commozione.

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(1) Poetessa italiana (1921-1992)
(2) La provò Stendhal uscendo dalla chiesa di Santa Croce a Firenze nel 1817.

Nathalie Cardone canta Hasta siempre




Testo:

La canzone
¡Hasta Siempre, comandante!

Aprendimos a quererte
Desde la histórica altura
Donde el sol de tu bravura
Le puso cerco a la muerte.

Aquí se queda la clara
La entrañable trasparencia
De tu querida presentia
Comandante Che Guevara.

Tu mano gloriosa y fuerte
Sobre la historia dispara
Cuando todo Santa Clara
Se despierta para verte.

Aquí se queda la clara
La entrañable trasparencia
De tu querida presentia
Comandante Che Guevara.

Vienes quemando la brisa
Con soles de primavera
Para plantar la bandera
Con la luz de tu sonrisa.

Aquí se queda la clara
La entrañable trasparencia
De tu querida presentia
Comandante Che Guevara.

Tu amor revolucionario
Te conduce a nueva empresa
Donde esperan la firmeza
De tu brazo libertario.

Aquí se queda la clara
La entrañable trasparencia
De tu querida presentia
Comandante Che Guevara.

Seguiremos adelante
Como junto a ti seguimos
Y con Fidel te decimos
¡Hasta siempre, Comandante !

Aquí se queda la clara
La entrañable trasparencia
De tu querida presentia
Comandante Che Guevara

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Il testo proviene dal blog:

http://circerie.blogspot.com/2006/12/mai-troppo-presto.html

Madamina, il catalogo è questo... (Mozart)



La voce del Leporello della situazione non mi piace granché (forse perché è un basso baritono?), ma il giovanotto ha prestanza, sa recitare e il video è ottimo e per visione e per audio.

E poi un po' di divertimento ogni tanto ci vuole, no?


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Riporto anche il testo, se vuoi cantare:

Madamina, il catalogo è questo
Delle belle che amò il padron mio;
un catalogo egli è che ho fatt'io;
Osservate, leggete con me.
In Italia seicento e quaranta;
In Almagna duecento e trentuna;
Cento in Francia, in Turchia novantuna;
Ma in Ispagna son già mille e tre.
V'han fra queste contadine,
Cameriere, cittadine,
V'han contesse, baronesse,
Marchesine, principesse.
E v'han donne d'ogni grado,
D'ogni forma, d'ogni età.
Nella bionda egli ha l'usanza
Di lodar la gentilezza,
Nella bruna la costanza,
Nella bianca la dolcezza.
Vuol d'inverno la grassotta,
Vuol d'estate la magrotta;
È la grande maestosa,
La piccina e ognor vezzosa.
Delle vecchie fa conquista
Pel piacer di porle in lista;
Sua passion predominante
È la giovin principiante.
Non si picca - se sia ricca,
Se sia brutta, se sia bella;
Purché porti la gonnella,
Voi sapete quel che fa.

Cesare Pavese (1 poesia)


LA TERRA E LA MORTE (13.12.1945)

Sei la terra e la morte.
La tua stagione è il buio
e il silenzio. Non vive
cosa che più di te
sia remota dall’alba.

Quando sembri destarti
sei soltanto dolore,
l’hai negli occhi e nel sangue
ma tu non senti. Vivi
come vive una pietra,
come la terra dura.
E ti vestono sogni
movimenti singulti
che tu ignori. Il dolore
come l’acqua di un lago
trepida e ti circonda.
Sono cerchi sull’acqua.
Tu li lasci svanire.
Sei la terra e la morte.
(Cesare Pavese - da “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”)

Massimo Bontempelli: uno scrittore da rileggere



(Sans commentaire)

Dall'auto, ferma a un semaforo, istantanea di città





LA CASA SULLA STRADA

Vesna Parun

Ero stesa nella polvere sul ciglio della strada.
Non vidi il suo volto.
Né lui vide il mio.

Impallidirono le stelle e l'aria si fece blu.
Non vidi le sue mani
Né lui vide le mie.

L'oriente mutò in un limone verde.
Ho aperto gli occhi per un uccellino.

Allora seppi chi amai
per la vita intera.
Allora lui seppe di chi le povere mani
abbracciava.

E l'uomo il suo fardello prese, e partì
in lacrime verso la sua casa.
E la sua casa è la polvere della strada
com'è anche casa mia.

(Tratto da Vesna Parun, Né sogno né cigno, Spring, ed. 1999)

I lucchetti dell'eterno amor


Adesso, a voler fare (potendo) una verifica: quanti di questi lucchetti corrispondono ancora a un eterno amor?

Cose magiare.

(Moccia e i suoi emuli son venuti dopo. Molto dopo)

Pecs (Ungheria) : photo by @rteJs

Erik Satie : Gymnopédie n. 1



Questa musica mi riporta ad una città atlantica. Di fronte a un mare umido di alghe.

Con poca speranza dentro di me, ma lottando per essere sempre combattente - se non è possibile essere vincitrice - nella vita.
Perché anche quando tutto va bene, anche quando si vince, si perde comunque.

Vado indietro di dieci anni.

Astor Piazzola: Adios Nonino



Ho un CD più intenso e "strappalembidicarne".
Ma anche questo può andare.

Fuoco addomesticato


E altre volte, addomestico il mio fuoco interno come si fa nei caminetti.

E' un fuoco alto, ma brucia in fretta.

Come me.

Il mondo di ghiaccio


Talvolta il mio cuore è così.

La neve ghiacciata mi serve per sopravvivere.

Aggiungo una poesia scritta quando ancora conoscevo il tedesco:

RUHE

Er schafft die Grenzen ab,

streicht Nationen aus,

der Schnee,

wenn er hinfällt.

In einer Nacht

Manchmal,

grausamer als Krieg,

fügsam ergibt er sich

vor dem unbekümmerten

Morgenlicht.

Und später bleibt von ihm

keine Erinnerung übrig.




C'è qualcosa di più bello per gli occhi?


La bellezza è semplice.

domenica 23 marzo 2008

In the Mood for Love (video film in cinese sottotitoli in francese)

Questo è un film che ho rivisto due volte (uscì nel 2000). Non mi sono persa il suo séguito: "2046" (meno riuscito, ma vale ugualmente la pena di vederlo).

Il succo di questa storia d'amore incompiuta è il seguente: quando si ama qualcuno e non lo si può confessare, in Cina, si usa (o si usava) confidare tale segreto nel foro di un albero e poi tappare il foro affinché il segreto rimanga (o rimanesse) tale per sempre (1).

_____________
(1) A qualcuno sfugge il particolare determinante dell'otturazione del foro nell'albero (Ma questo lo capiamo in due)

L'atelier di Cézanne


Una porta dall'anta aperta. Ti invita ad entrare.

E' l'atelier di Cézanne, nella sua città.

Cézanne che in origine era Cesanna, giacché il babbo era italiano e si fece francesizzare il nome, per viver meglio (come banchiere).

Quante cose, troverai là dentro, caro lettore, se ti trasformerai in visitatore...

(Ma prendi appuntamento all'Office de tourisme, altrimenti non potrai varcare quella soglia).

P.S. Era una splendida mezza mattinata di gennaio.

Presso un santuario (architettura neorinascimentale)



Mi piace andar per chiese e santuari. A che cosa fare?


A veder la loro architettura.


Questa, per esempio

Nella prima foto, abbiamo l'ingresso al santuario dalla facciata neogotica.



Nella seconda foto abbiamo un'edicola (sono due). Fiancheggia il santuario.

Il santuario è conosciuto dal 1334, ma fu rifatto nel 1883, dopo un incendio. Lo stile è ideal-rinascimentale e ricorda i fondali del Perugino e di Raffaello (Lo sposalizio della Vergine)


P.S. E' evidente che non dimentico di menzionare i luoghi che cito. Lo faccio apposta.




La terra degli alberi che diventeranno violini
























In questo paese, gli alberi son solo aceri.
Da questo paese, partono ridotti a tronchi perché diventino i migliori violini da vendere nel mondo.


Qui è tutto antico: se ti bendassero gli occhi e potessi riaprirli in mezzo a questa regione, potresti a buon diritto ritenere di essere nel XVII secolo.

Non ti capiti mai di rimanere a secco di benzina (come è capitato a me).

A meno che la tua auto non funzioni anche col diesel dei trattori agricoli
(beh, non tutto è proprio XVII secolo)...

Il Nucléon


Il Nucléon è un – anzi è IL – caffè degli studenti, vicinissimo all’università. Puoi sederti, ordinare qualcosa da bere, anche solo un bicchiere d’acqua minerale, leggere, studiare, scrivere, per ore; nessuno ti dirà nulla.

Quando ancora non avevo una casa mia, era qui che la mattina facevo colazione: 3,50 euro per un succo d’arancia, un cappuccino e una mezza baguette piena di burro e marmellata di fragole.

La foto è bagnata dal sole, ma io, il Nucléon, l’ho visto sempre sotto la pioggia e comunque col maltempo. Appena entri c’è la terrasse, cioè ci sono i tavoli grandi e piccoli, tondi (i guéridons), quadrati o rettangolari, per sedersi, poi entri nel bar propriamente detto, c’è il bancone per chi vuole prendersi una birra e scappar via (dopo aver scambiato qualche parola col barista) e al piano superiore ancora una stanza piena di tavolini per pranzare (e non solo). Diciamo che l’età media degli habitués è sui 22 anni. Io ho fatto salire la media.

Lasciando da parte i sentimenti che mi abitavano all’epoca, l’unico passatempo tra un caffè e l’altro era osservare gli altri. Confesso: gli studenti non erano interessanti.

Ma c’era un uomo che attirava tutta la mia attenzione. Un uomo strano.

Età indefinita: 50? 60? Magro, abbastanza alto, capelli ondulati e grigi, barba sale e pepe. Zuccotto (o qualcosa di simile) sulla testa, fino a coprire la fronte. Abbigliamento curato, ma un sospetto di “perduto” c’era. Insomma, avevo davanti un barbone o un intellettuale?

Gentile, a modo, senza tracce di amore dissennato per la bottiglia, fumo sì, quello fatto da sé, con tabacco e cartine, sempre un libro o un quadernetto con sé che estraeva da una saccoccia di tela, aria pensierosa e assorta, unghie nette, mani – debbo ripetermi – da intellettuale. Pulito era pulito, ma i suoi abiti rivelavano un parto risalente ad almeno vent’anni prima. Un mistero.

Sapessi quante volte avrei voluto rivolgergli la parola. Ma non l’ho mai fatto per paura che potesse fraintendere. Dimenticavo: un volto antico, affilato, un volto da ulisside.

Lo incontravo più volte durante la giornata, per le vie – poche, invero – del centro. Mi son chiesta se avessimo gli stessi orari e abitassimo nello stesso quartiere: ormai avevo optato per il professore di filosofia.

Fino ad una sera.
Al solito, pioveva. Erano le sette, rientravo dalla facoltà, l’ombrello per fortuna l’avevo. Decido di non fare la solita rue Saint-Pierre, ma di svoltare per la rue Froide (e fredda lo è per davvero, il sole non riesce proprio ad incunearsi in quella stradina stretta), costeggiando una chiesa bellissima e chissà perché sempre chiusa.

Lo vedo. Anzi, prima di lui vedo la mano stesa. Lo riconosco e avverto una sensazione sgradevole, mista, di delusione e compassione. Chiede l’elemosina.

Abbasso l’ombrello sulla mia testa: non voglio che lui veda che l’ho visto. È come se volessi preservare la sua dignità; non è vigliaccheria, la mia.

Da quel giorno non l’ho più incontrato.

Lo cerco con gli occhi, per le vie, ma è scomparso.

Chissà dov’è ora il mio mancato professore di filosofia.

Esistono luoghi



















Esistono luoghi dove sono stata in sogno, prima d'esservi stata.
Quello della foto è uno di questi.

Quel che sognai, non è nella foto: occorrebbe finire di procedere su per la salita, svoltare a sinistra e superare un gran arco di pietra bianca.

Nel sogno c'era tanto sole. Invece quando arrivai io qui per la prima volta, c'era la nebbia e tutto il paese era immerso in una nuvola, di quelle che fanno pensare alle fiabe e alla panna montata che si aggiunge alle fragole

Walk on by

Poche parole: basta la musica del video.

My house is empty now (video Elvis Costello)

Amo dall'età di 16 anni la musica di Burt Bacharach. Da qualche anno anche Elvis Costello (che ha inciso un CD con Bacharach).

Questa canzone è per me importante. Forse perché my house è stata empty per un certo periodo.

E per certi versi lo è ancora.

Nella vetrina



















Che cosa mettiamo di noi stessi in vetrina, in bella mostra ma rigorosamente sotto chiave?

Vedere e non toccare, come nei musei.

Io esibisco la mia maliconia (si sarà capito che amo le situazioni ossimoriche).

E dove nascondiamo quelle parti che non ci piacciono o di cui ci vergogniamo?
(Forse ti chiederai, lettore. Risposta non ve n'è. Non qui, almeno)

Il modo tuo d'amare (poesia di Pedro Salinas)



Il modo tuo d'amare di Pedro Salinas (da La voce a te dovuta)

Il modo tuo d'amare
è lasciare che io t'ami.
Il sì con cui ti abbandoni
è il silenzio. I tuoi baci
sanno offrirmi le labbra
perché io le baci.
Mai parole, abbracci
mi diranno che sei esistita
che mi hai amato: mai.
Me lo dicono fogli bianchi,
mappe, telefoni, presagi;
tu, no.
E sto abbracciato a te
senza chiederti nulla, per timore
che non sia vero
che tu vivi e mi ami.
E sto abbracciato a te
senza guardare e senza toccarti.
Perché non debba mai scoprire
con domande o carezze
l'immensa solitudine
d'essere solo ad amarti.


Il nostro "daimon"












Non molto tempo fa, ho scoperto che secondo l'accezione hillmaniana, ognuno di noi ha il proprio daimon (la propria "ghianda", hanno tradotto gli psicoterapeuti italiani).

Non molto tempo fa, avevo bisogno di sapere dove stessi andando con la mia vita, quale fosse la mia funzione su questa terra.

Alla fine il risultato fu: ESSERE PER GLI ALTRI.

Essere per gli altri: qualcosa di simile al Moi, c'est l'autre di Arthur Rimbaud, soltanto, al plurale.

Come per Luis Buñuel


















In un film di Luis Buñuel (Il fantasma della libertà, 1974), mangiare è un atto di cui vergognarsi e per ciò stesso lo si fa di nascosto, mentre i propri bisogni li si fa davanti a tutti, come atto conviviale.

Senza arrivare a tali - surreali - risultati, per me mangiare in pubblico è un atto che mi depossiede e non amo farlo. Seguo l'etichetta (non che se mangio da sola, poi, sia una troglodita), ma perdo il gusto del mangiare.
Non assaporo più il cibo.
Debbo controllare il mio agire.

E dunque non amo mangiare in pubblico, al ristorante, davanti ad altre persone (1). E nemmeno da sola. A casa, la convivialità torna sovrana (ma in genere in tal caso, faccio funzione di cameriera e dunque non mangio lo stesso).

Così come non riesco a gestire una conversazione con più di una persona davanti a me.

Cioè, ci riesco - come no - solo che sono meno "intensa".

Capita anche a te che leggi?


_____________
(1) Unica eccezione: il martedì sera.

La débâcle des sentiments

Stupenda canzone in cui si confondono Stanislas e Calogero.

Le parole dell'amore finito sono le stesse della guerra con le sue sconfitte.

Lo aveva già detto Choderlos de Laclos nelle sue Liasons dangereuses nel 1783...




Dove va tutta questa gente?





















Cartelli stradali, automobili, negozi, gente che viene e che va (io da questa parte, a scrutare il mondo).

Qual è la vita di questa gente? Dove va, da dove viene? Che pensa? Ama, è amata, è perduta?

Quando entro nello sguardo degli Altri, mi immagino le loro esistenze a partire dagli abiti, dal loro modo di incedere, di guardare o di non guardare fuori di sé. Immagino, costruisco le loro storie. E mi sento ridimensionata, abbandono il mio posto di vedetta sul creato.

Poi torno ad esser lontana, a fuggire da un posto nel mondo.

I colori assenti dalla mia vita



















Per cambiare, oggi che è Pasqua, metto una foto colorata. L'ho scattata da un posto molto famoso, ma questo luogo è sconosciuto ai più, perché non compreso nel "pellegrinaggio turistico".

Gli elementi per ritrovarlo, ci sono tutti, basta osservare bene i dettagli.


Oggi ho voglia di colori.

sabato 22 marzo 2008

L'instabilità equilibra
















La foto qui sopra (scattata in un giorno di febbraio 2008 su una spiaggia del Nord) può sembrare desolata: io la definisco essenziale.

C'è il mare (gelido, ma immutabile), una bandiera come avamposto di esistenza (ed è mobile), un gran cielo che continua il mare quasi senza soluzione di continuità; il posto è deserto come piace a me.

In fin dei conti, l'instabilità equilibra: non dà certezze. E mi piace ricordare una frase di Brecht:
von den sicheren Dingen, das Sichere ist der Zweifel.
Ovvero:
Di tutte le cose sicure la più certa è il dubbio

Il caffè bastardo














Tu che leggi magari non te ne accorgi nemmeno.
Tu che leggi ti prepari il caffè ogni giorno, più volte al giorno, oppure detesti il caffè.

Quando stai "altrove", dove la parola si pronuncia in un altro modo, il caffè che bevi nei bar è bastardo (odio la parola, ma qui ci sta bene). Là, l'espresso equivale a una dose inferiore di brodaglia nera nella tazzina.

La macchinetta (non quella che ho fotografato, ché non saprei nemmeno usarla) diventa indispensabile. Tant'è che i pochi amici che mi vengono a trovare sanno di dover mettere nella loro valigia o una nuova caffettiera o qualche pacco di Lavazza crema e gusto, gusto forte.

Il profumo del caffè italiano mi sta dentro come un marchio impresso nell'anima.

(E meno male che della pasta, invece, me ne frego)

Lontano nel tempo e nello spazio
















Mai più vedrò aurore bellissime come questa, a risvegliarmi al mattino.


Una parte di me sognerà sempre di aprire gli occhi e vedere questo splendore.

Colori di terra slava.

"Leggendo" un quadro di Salvador Dalì



Quella volta

È ingrassata, Serenella. Il sedere le ballonzola allegramente nel vestito mentre canticchia un motivo spagnolo. Oggi non ha nulla da fare, domani riprenderà la scuola, ma oggi è ancora vacanza…

Serenella, vieni, la merenda è pronta!

Una mosca ronza a circolo e s’affanna a venir fuori dalla tenda azzurra che la spinge verso il vetro traditore. Quasi quasi ora l’ammazza. Prende lo strofinaccio con il quale ha asciugato piatti e bicchieri del pranzo di dianzi, poi si ferma. Ha altro a cui pensare, Serenella.

S’annusa il collo bianco a strisce blu dell’abito che indossa. Cerca l’odore di lui. E lui è l’amore. Il suo amore che l’ha presa all’inizio dell’estate, ancora e ancora, giù alla darsena, quand’era buio e nessun pescatore impiccione poteva gettare l’occhio. Per questo non riesce a staccare lo sguardo dalla baia in lontananza. C’è una vela alla confluenza con il canale. Serenella ha quattordici anni e sogna.

Vita, vita… che vita avrò? Quando diventerò una donna e condurre la vita che voglio con Vito? Quanto bisogna aspettare e quanto impiega il tempo a passare?

I movimenti del pensiero della fanciulla assomigliano a quelli della mosca. Che non viene ammazzata e la scampa, per stavolta. Invece l’acqua è troppo stagnante e perciò lei non la sopporta. Sempre la stessa, quasi immota, come la vita sua e quella di sua madre. Da anni stanno da sole, in una casa troppo grande e troppo austera, dono del nonno, e ogni tanto sparisce un mobile. Serenella ha impiegato anni per capire come. Quand’era più piccola pensava che fossero i fantasmi del vecchio quartiere a fare i dispetti e rubare la roba a sua madre. Poi ha finalmente compreso che la mamma se li vendeva, i mobili.

Se dovessi fare affidamento su quello che ci passa tuo padre, dovremmo stendere la mano giorno e notte, figlia mia!

Serenella non vuole finire come sua madre. Non è vecchia sua madre, ma a forza di fare le pulizie alle zitelle del quarto piano, s’è ingobbita e nei suoi occhi ci sono troppi aghi pungenti. Lei no, vuole studiare, laurearsi, divertirsi e poi sì, anche sposarsi, un giorno, non subito però. Con Vito, certo, anche se forse la madre non sarebbe d’accordo perché in paese si dice che il padre di lui non sia una brava persona. “Gli uomini sono immondizia, figlia, spazza bene negli angoli della tua casa”, è il ritornello della mamma. Mica tanto: fare l’amore con Vito era stato come avere la casa in disordine, i cuscini con le piume che volano in alto e poi cadono a terra, i maglioni e le gonne sul letto, l’acquaio grasso e maleodorante e alla fine ritrovarsi forchette e forchettine tazze e tazzine piatti e piattini, tutto allineato ben bene in fila brillante e sgrassato.

Quando Vito tornerà dalle vacanze, riprenderanno a fare l’amore. Dovranno trovarsi un altro posto: d’inverno alla darsena soffia forte il vento. Ora però c’è ancora la vivida luce dell’estate, quella che posa un velo sulla nostalgia del cuore.

Serenella, vieni, la merenda è pronta!

Vengo, mamma. L’hai messa la marmellata di fragole?

Non lo sa ancora, ma teme l’appetito che da qualche giorno la perseguita: sarà mica incinta?

Rassicurati, figlia, queste cose succedono la prima volta ormai solo nei romanzi: come quella mosca, per questa volta l’hai scampata.

Quando chi ami sta male






No man's land

E' lo spigolo grigio e il metallo pulito

il crocifisso e il mio respiro asincrono

accanto

quel sussulto che batte

alle tempie

strappandoti al sonno;

è la paura

di sognare male.


No man's land:

è questa stanza d'ospedale.


settembre 2005

Indifferenza all'ambizione


Può una chiesa ritenersi ambiziosa?
Se si accetta il gioco retorico e la si personifica, direi di sì.
Questa chiesa (di cui, lettore, ti illustro il portale) è l'unica di uno sperduto villaggio della Seine-et-Marne, a 80 km da Parigi.

Risale all'età romanica, il periodo è quello della cattedrale di Chartres; di più non si sa. E' l'unica cosa importante di un luogo che non ha nemmeno un negozio. Solo una manciata di (belle) case di architettura seicentesca, à colombages (o pan de bois).

Se ne sta lì, impettita e anche abbastanza massiccia, isolata. Vi suonano, di tanto in tanto. Non si fa messa. Era amata da Proust.

Ecco, io l'ambizione non l'ho mai capita.

Una solitudine coltivata


Direi che la solitudine che mi ha accolta qui, e che mi sono anche coltivata, va rafforzando in me quel senso di estraneità alle persone che è cresciuto negli anni. Non è un caso che non parli mai degli esseri umani. Credo sia anche per questo che ho smesso di scrivere novelle. Prima gli esseri umani mi interessavano e li raccontavo a modo mio. Ora sono le cose che mi interessano di più. Trovo le cose più concrete e attendibili delle persone. Che cosa significhi, ti giuro, non mi perito di saperlo. Quando dico le cose, non intendo gli oggetti, a meno che essi non siano all’interno di un contesto che per me significa qualcosa. Come ad esempio, nella foto qua sopra.

Quei tetti azzurri che vedo dalla mia finestra mi sopravviveranno. Non voglio dire che la natura (sia pure una natura artificiale, creata dall'uomo) sia leopardianamente indifferente. E se lo è, ha tutta la mia approvazione. Approvazione della quale la Signora Natura se ne infischia, giustamente.

A quei tetti non mi lega che uno sguardo, abituale e mattutino, gettato distrattamente in loro direzione. Sono la speranza di un mutamento, di un rinnovamento dentro di me.

Tutte cose che mi dico da anni, ma io non cambio, non cambio mai, come l’Alberto Lupo di Mina.

Gabbiani (ovunque, ve ne sono)


Se è vero che né di venere né di marte si dà mai principio ad arte, è pur vero che il principio c’è stato di lunedì. Lo dico sempre che ad esser grintosi, ci si guadagna. La combattività ha sortito i suoi effetti: il microonde è arrivato e hanno inviato una donna delle pulizie a lavare le scale e smacchiare la moquette.

Fatto sta che anche oggi tira un vento tremendo. Poi dicono la Bora o il Mistral. Qui si usa distinguere il tipo di vento che soffia. C’è vento e vento, insomma.

Eh, oggi è vento di mare!” oppure: “Vento di terra, questo…”. Giuro che non ho ancora capito la differenza (1). Chi non avesse pratica di mare nordico francese, potrebbe obiettarmi che posso riconoscerlo dall’odore. Un corno: dalla Manica mica viene quell’ aromatico effluvio come nelle zone del Mediterraneo. Ché in Italia, per esempio, è proprio un profumo: sa di sale, di iodio, di pino, di cielo e di acqua. In Provenza porta con sé anche la fragranza della lavanda e in Corsica quelle di rosmarino e salvia.

Sulle coste normanne e bretoni, il vento – non lo si può di certo definire brezza – che soffia imperterrito non ha odore. Come da bambini ci insegnavano per le particolarità dell’acqua e noi ripetevamo a memoria: “inodore, insapore, incolore”. Puoi applicare la proprietà transitiva, te che leggi.

Non so se hai avuto stessa impressione per altre acque. Naturalmente, al posto dei piccioni, qui ci sono i gabbiani.

Naturalmente, rompono uguale.


(1) Queste cose le ho scritte un anno fa. Ora comprendo anch'io la differenza. Ieri, ad esempio, tirava vento di mare.

Vivere come narcotizzati


Però è vero che vivo come narcotizzata.

È un modo come un altro per non sentire il dolore. Qualcosa arriva sempre, a tradimento, ma quando si è sotto anestesia, quel che si sente – ed è molto – si ferma in superficie e allora non si diventa matti.

È come se vivessi in una bolla, anzi, a dire il vero, in molte bolle. O stanze chiuse, le cui chiavi mi vengono messe a disposizione secondo uno scadenzario mestruale.

Paul Auster






Un lunedì.
La giornata è cominciata battagliera; potrei dire che non ci ho dormito la notte, se non fosse che invece, alla fine, ho dormito tanto, con intermezzi di risveglio non voluto.
E così, ho iniziato col telefonare all’amministratore del palazzo per dire che da tempo nessuno pulisce le scale, poi sono scesa armata di cacciavite per mettere la targhetta col mio nome nel (e non sul) citofono, infine ho chiamato Conforama per chiedere come mai il forno a microonde non mi è stato ancora recapitato. A mezzogiorno, è stata la prima volta, dopo tanti tantissimi anni, di lavanderia self-service. E già, poiché non ho neanche una lavatrice, in casa. Nel frattempo, mentre nelle macchine i panni da sporchi diventavano puliti, sono andata alla FNAC (una libreria che non smetterò mai di amare) ad acquistare un videogioco per quando verrà Romain e la trilogia newyorkese di Paul Auster.
Lo amo, Auster. Scrive come (e quel che) vorrei scrivere io. E come mai riuscirò (d’altronde, se anche vi riuscissi, sarei un clone. E allora, cui prodest?).
C’è un passaggio che per me è stato un’illuminazione; qualcosa che descrive esattamente come mi senta in questo periodo. Lo trascrivo qui (conta però che traduco dal francese che traduce dall’americano):
“Ma quel che amava sopra ogni cosa era camminare. Quasi ogni giorno, che piovesse o tirasse vento, facesse caldo o freddo, [Quinn] lasciava il suo appartamento per deambulare nella città – senza per davvero sapere dove andava, spostandosi semplicemente nella direzione dove lo conducevano le gambe. […]
[Questo suo errare] gli dava sempre la sensazione d’essersi perduto. Non soltanto perdutosi nella città, ma anche in lui. Ogni volta che usciva a camminare aveva l’impressione di lasciare se stesso e, abbandonandosi al movimento delle strade, di ridursi ad essere nient’altro che uno sguardo. Così, poteva sfuggire all’obbligo di pensare, la qual cosa, più d’ogni altra, gli portava un po’ di pace, un salutare vuoto interiore. Intorno a sé, davanti e fuori di sé, c’era tutto un mondo che cambiava ad una tale velocità che a Quinn era impossibile attardarsi a lungo su alcunché. Il movimento era l’essenza delle cose: porre un piede davanti all’altro e permettersi di seguire la deriva del proprio corpo. Vagando senza meta, tutti i luoghi diventavano uguali e non era più importante trovarsi qui o lì. Le passeggiate migliori erano quelle in cui poteva sentire che non stava in nessun luogo. E in fondo era tutto quel che aveva chiesto alle cose: non essere in nessun luogo.” (da: City of glass)
Capisci, ora? In realtà, dovrei fare una rettifica a quanto sopra espresso. Se è vero che da sempre non ho un posto mio (nula mjesto), è pur vero che in qualunque luogo mi trovi, se ci sono due eventi, piccoli ma coincidenti, allora ogni luogo è casa mia.
Mi riferisco al canto degli uccelli e al suono delle campane. Quando, assai raramente, mi capita di sentire le due melodie avvicendarsi nell’aria, ecco allora, in quel preciso attimo che durerà tutt’al più uno o due minuti, sono pervasa da un calore dentro che s’irradia verso l’esterno e credo somigli a qualcosa come alla felicità. In quel momento, ovunque mi trovi, non mi sento straniera.

Inizi di una vita solitaria e lontana



Impressioni da una città lontana (work in progress, al solito)
Tu che leggi,
eccomi qui a sperimentare qualcosa con te. Intendo, sì, raccontarti (è tanto che non scrivo per diletto) i miei spazi non lavorativi, ma forse la presenza di qualche foto qua e là, aiuterà, spiegherà meglio delle parole. O più semplicemente, le asseconderà. Vado a ritroso; è più facile.

Febbraio 2007. Oramai è ben difficile che riesca a dormire a lungo, la mattina. Gira che ti rigira, quando proprio non ce la faccio più a stare nel letto, sono a malapena le 9h.
La domenica, qui da dove ti scrivo, la gente dorme fino a tardi. Non di rado, alle undici non si vede ancora nessuno in giro. Giusto qualche vecchietta per la messa.
Verso mezzogiorno la città prende vita, ma solo verso il porto, ché c’è il mercato settimanale. Carino, se non fosse che l’ho vissuto – e in meglio, cioè era più bello – a Montparnasse. I cinesi vendono nems, ravioli e quant’altro a portar via, i pollivendoli i loro polli, gli ostricai tutti i tipi di frutti di mare (ostriche, gamberi e palourde, soprattutto)… Poi naturalmente ci sono i verdurai ben divisi dai fruttivendoli, quelli che confezionano crêpes all’instante, il cous-coussari a tutte l’ore, etc. Gli olezzi alimentari cucinati arrivano tutti insieme, come una zaffata, in una folata di vento, e non è che siano un granché.
In genere piove, o tira vento forte, o tutte e due le cose.
Ma io vado quando il mercato non c’è più, quando oltre a me, ci sono solo i netturbini coi loro camion e le pompe d’acqua. O anche i netturbini semplici, quelli col bidone e le scope.
Insomma, cammino tanto, ma preferisco farlo quando rari sono i passanti. Mi sento più libera (per esempio, di non truccarmi). Il vento non mi dà fastidio, è l’elemento naturale col quale mi identifico da anni. La pioggia, sì, è una gran seccatura, ma ho imparato che qui la pioggia dura 5 minuti (terribili, pare che ti caschi il cielo sulla testa), poi si ferma per un quarto d’ora, per ricominciare subito dopo. Ci si allena e si tiene d’occhio un riparo per quei 5 mn che si ripetono, immancabilmente.
E poi fotografo. Soprattutto cose non belle (a parte lo scorcio di chiesa che vedi in alto).