giovedì 15 maggio 2008

15 maggio: la Festa dei Ceri

(si sente in sottofondo il campanone).


Gubbio, la Festa dei Ceri, il 15 di ogni maggio (nella foto in bianco e nero, intravedo mio padre).

A quest'ora il Campanone ha già suonato. Coi piedi di chi si arrampica sul campanile laico a suonarlo.

Se non son matti, non ce li volemo, recita l'adagio popolare eugubino.

Eh già. Proprio così.

Riporto uno stralcio di un racconto (Sette chili di carbone al giorno) che scrissi sull'emigrazione, alcuni anni fa e di come gli eugubini riproponevano la Festa dei Ceri anche all'estero, in Francia, nella fattispecie.

E forza Sant'Ubaldo! (che detto da un'atea...)

“La nostalgia è una brutta bestia”, spiega mia madre Anna ad una me ragazzina che non capisce l’emigrazione. “Il periodo più brutto, lo capisci da te, era quando veniva maggio”. Questo lo capisco; eccome.


Anche per una come me che non è né nata né vissuta a Gubbio, che di Gubbio ha visto solo la facciata esterna, che ne ha amato solo i lati più belli e che ha fatto di Gubbio il suo posto delle fragole, c’è il richiamo della foresta, a maggio.
C’è la Corsa dei Ceri, a maggio. Il quindici. Come si fa a spiegarla? Sembra una cosa da scemi, a spiegarla. Bisogna viverla.

Che febbre si può comunicare raccontando che è una festa mezza religiosa e mezza pagana, che dura un giorno? Un giorno vissuto correndo appresso a tre macchine di legno verticali, di quattro quintali, che gli uomini portano a spalla e alle cui sommità ci sono tre statuette di santi, a simboleggiare le corporazioni dei mestieri, sant’Ubaldo per i muratori, san Giorgio per i commercianti e sant’Antonio per i contadini e gli studenti? E se poi dici che qui sono stati sempre tutti comunisti, o al massimo socialisti, chi vuoi che ti capisca? Tanto a quelli di Gubbio non gliene frega niente di spiegare ai forestieri. Quelli di Gubbio pensano che noialtri forestieri non sappiamo che cosa significa “portare il cero”, vedere il cero, sentirlo, capirlo.


Ma uno ce l’ha nel sangue o non ce l’ha. Anche a millecinquecento chilometri di distanza, dove vivo oggi, il quindici maggio il battito del mio cuore si arresta per mettersi al tempo del campanone, la campana laica del Palazzo dei Priori, messa in moto una sola volta all’anno, a metà maggio, a mezzogiorno, a colpi di piedi.


E’ il paese dei matti, Gubbio, no? Ma quale Gubbio? Quella che farà a meno dei suoi emigranti, che andrà avanti senza di loro?
Sgravata di tanto peso, Gubbio, ricca e brustenga, mastica ormai una lingua che sa di colline d’attorno e negli attempati francesi, che transumano d’estate a bordo di pacchiane Alfa Romeo dai fanali gialli, più non riconosce i giovani partiti alla ventura per un tozzo di pane. Quelli che tornano si sentono fuori posto, sempre e ovunque. Si sta bene solo durante il viaggio, in quel segmento che congiunge il luogo dell’esilio con quello della patria perduta. In quella linea dolorosa trova cittadinanza l’asilo sentimentale dei ricordi, dei sogni e delle speranze…

Brutta bestia, la nostalgia. Ecco perché mio padre, insieme con altri eugubini, si mette a trafficare con legno e accetta; ci pensa soprattutto un falegname di Gubbio, Peppe di Rocco che poi è il mio padrino. Abbozza le statuette, il cavallo di San Giorgio… Le donne comprerebbero volentieri le pezze gialle, azzurre e nere per farne delle camicie. E taglierebbero lunghe strisce di fodera rossa per le fasce da scivolare nei passanti dei pantaloni bianchi. Se solo ci fossero i soldi. E allora i santi si onorano col vestito buono, quello della domenica e basta.


E finalmente arriva, quel quindici maggio del cinquantotto, con mio padre a fare il capodieci dei santubaldari, insieme al suo ricciolo vagabondo, mentre gli altri che tengono sulle spalle il legno leggero si aiutano l’un l’altro a far sopravvivere il sogno surrogato, trapiantandolo qui, a Villerupt. Dove non c’è la discesa del Neri, né la piazzetta di Santa Lucia, dove soprattutto non c’è il monte Ingino ove riporre i ceri, a sera. Solo una larga spianata in pendenza.


Ma qui, adesso, c’è la vita, con le mogli a batter le mani e agitar fazzoletti, via ch’eccoli!, coi bimbi divertiti a correre appresso a te e agli altri – figli spergiuri che da grandi non spiccicheranno una parola d’italiano, francesi al duecento per cento –. Ci siamo noi, qui.


Ecco, volteggia il cero e se fai uno sforzo, Piero, nel disordine delle emozioni, puoi sentire il rintocco della campana, il profumo del maggiociondolo che si spande nell’aria frizzante del tuo paese, puoi sentire quella parte di te che non sarà mai.


La tua Itaca però ora è lontana, e la vita vera è in questo scalcinato paese che non profuma di niente, che ha le case nere ed una chiesa che sembra il residuo di un bombardamento, un paese
in cui non risuonano le risate, in cui l’unica musica a modulare la vita è una pioggia crumira, perché questo è il paese degli esiliati.

(solo con intenet explorer, con firefox, non funziona:)
http://www.ceri.it/ceri/diretta/index.htm



4 commenti:

  1. Coucou!
    Ha ragione Anna, è vero che si capisce a maggio. Anche se non sono "di là"...
    Mi sono venute in mente alcune parole di Pavese,... ma poi non le ho ritrovate...Solo qualche frammento, "un pezzo di muro", "un pezzo" di cielo" che è tuo "e sei a casa davvero"...Boh!
    Allora ho continuato a leggere, e nel tuo testo c'era il senso di quelle parole. Sei proprio brava.




    "Il mio paese sono quattro baracche e un gran fango, ma lo attraversa lo stradone provinciale dove giocavo da bambino.
    Siccome - ripeto - sono ambizioso, volevo girare per tutto il mondo e, giunto nei siti più lontani, voltarmi e dire in presenza di tutti: 'Non avete mai sentito nominare quei quattro tetti? Ebbene, io vengo di là'".
    C.Pavese

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  2. Anna è la mia mamma. E si chiama per davvero Anna. Piero, lo sai, è mio padre.

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